Controversa, incostante e molto scomoda per la rivoluzione, Olympe de Gouges fu giustiziata nel 1793. Appena prima che la lama cadesse sul suo collo, esclamò: «Figli della patria, voi vendicherete la mia morte!». Come unica risposta ricevette un unanime «Viva la repubblica!».
Fu battezzata nel 1748, a Montauban, vicino a Tolosa, come Marie Gouze. I suoi genitori erano Anne-Olympe e Pierre Gouze, macellaio, anche se era vox populi che il suo padre biologico fosse l’autore teatrale Jean-Jacques Lefranc, marchese di Pompignan. Imparò a leggere e scrivere a sufficienza per firmare nella sua prima lingua, l’occitano, usata nel sud della Francia tanto dalla gente comune quanto dalla nobiltà. Sposata a forza con Louis-Yves Aubry, ebbe con lui il suo unico figlio. Presto si liberò di quel matrimonio rimanendo vedova e non si sposò di nuovo; per lei il matrimonio era «la tomba della fiducia e dell’amore». Il suo ideale di coppia era un’unione fra uomo e donna attraverso un contratto che – una volta separati – permettesse loro di avere figli legittimi con altre persone.
Intenzionata a iniziare una nuova vita, cambiò nome. Scelse Marie Olympe Gouges e vi aggiunse un “de”, la particella borghese con cui probabilmente volle celare le sue umili origini. Con questa nuova identità si trasferì a Parigi con il suo amico Jacques Biétrix, la cui generosità le permise di vivere nell’agio e di cercare di raggiungere la fama come scrittrice.
Un talento autodidatta
Olympe si adattò bene alla Francia delle apparenze di Luigi XVI e usò il suo ingegno e la sua eloquenza per farsi spazio nell’elegante società parigina, soprattutto nei salotti letterari istituiti da donne. Era il primo passo per diventare una letterata. Nonostante la modesta formazione, accumulò più di quattromila pagine fra pamphlet, lettere e opere di teatro e testi politici, filosofici e utopici. E riuscì a trasformarsi in “autore”: non in “autrice”, un termine ancora inesistente.
Solo il quattro per cento dei francesi leggeva correntemente, perciò il teatro godeva di tanto successo, e Parigi ne era la capitale. Dopo aver assistito a Le nozze di Figaro, di Beaumarchais, nel teatro della Comédie Française, Olympe scrisse Il Matrimonio inatteso di Cherubino, incentrato su uno dei personaggi dell’opera. Beaumarchais la accusò di plagio e la rappresentazione non raggiunse mai le scene.
Scrisse poi Zamore e Mirza, una pièce che puntava l’attenzione sulla sorte dei neri schiavi nelle colonie e la cui messa in scena fu approvata con qualche esitazione dalla Comédie Française, che dipendeva economicamente dalla protezione dei membri della camera del re. L’opera le procurò l’inimicizia delle famiglie che dovevano la loro ricchezza ai traffici con le colonie e le attirò minacce di morte. Nel settembre del 1785 Olympe si lamentò dei commedianti, provocandone la reazione: essi si rivolsero ad alcuni ministri e ottennero che la pièce fosse ritirata e che la sua autrice fosse oggetto di una lettre de cachet, ovvero di una condanna senza processo che veniva comminata direttamente dal sovrano. Solo grazie alla protezione di persone influenti Olympe sfuggì al carcere.
La voragine della rivoluzione
Madame de Gouges fu la prima a sorprendersi quando finalmente, nel dicembre del 1789, Zamore e Mirza fu rappresentata. Quello stesso anno, gli Stati generali di Francia si erano riuniti a Versailles. Ma la rappresentanza del Terzo stato – lo strato più basso della società – non era equa e questo scatenò la tempesta. Il popolo prese la Bastiglia, i codini sostituirono le parrucche e la coccarda tricolore si diffuse ovunque.
Olympe fece la sua parte. Chiese che si provvedessero alloggi per anziani, vedove con figli e orfani, che si organizzassero seminari per disoccupati e che si introducesse una tassa sul lusso. Dimostrava il suo spirito umanistico e il suo impegno sociale, anche se le sue petizioni erano sempre collegate alla sua situazione personale: aveva un figlio e si preoccupava delle madri, era stata una moglie infelice e reclamava il divorzio, era illegittima ed esigeva il riconoscimento dei figli naturali, aveva appena ricevuto un’educazione e la pretendeva per tutti.
Per via della sua posizione moderata, Olympe aveva contro di sé tanto le élite quanto i radicali. Il 5 ottobre del 1789, giorno della marcia su Versailles, alcuni agitatori irruppero nella sua casa accusandola di rivendicazioni popolari e rimostranze alla famiglia reale. Si presentava come una progressista, ma il suo unico atto rivoluzionario fu chiedere la riduzione delle diseguaglianze. Non smetteva di essere una borghese di buon cuore, non volle mai allontanarsi dall’aristocrazia, ma guadagnarsela. Perciò difendeva una monarchia riformata e si definiva una «patriota realista», due termini difficili da associare. Non vedeva di buon occhio la sperperatrice Maria Antonietta, ma dispensava il re.
Opinioni mutevoli
La forza e la spontaneità con cui agiva furono la sua rovina. Non apparteneva ad alcuna formazione politica, quindi si guadagnò molti nemici. «Fluttuava da un partito all’altro a seconda delle onde del suo cuore», scrive Jules Michelet in Storia della rivoluzione francese. I suoi argomenti erano mutevoli e finì per diventare «controrivoluzionaria». Molto colpita dalla cattura della famiglia reale durante la fuga, prese le difese di Luigi XVI, per tornare poi al repubblicanesimo. Infine, difese il federalismo plebiscitario e con esso firmò la sua condanna a morte.
Fra gli aspetti che la rivoluzione difese per poi abbandonare vi era la partecipazione alla vita pubblica delle donne, che non avevano «la facoltà di assistere ad alcuna assemblea politica». Delusa, Olympe pubblicò nel settembre del 1791 la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Considerato il primo manifesto femminista, iniziava così: «La Donna nasce libera e rimane uguale all’uomo nei diritti. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune». In esso reclamava l’uguaglianza giuridica e legale delle donne e sosteneva riforme che sarebbero state introdotte solo dal XX secolo, come il suffragio universale, il divorzio e la regolarizzazione delle coppie di fatto.
L’inizio della sua fine lo segnò un manifesto dove proponeva che ogni Paese scegliesse fra tre tipi di governo: repubblicano, federale o monarchico. Non lo firmò, ma un’accusa la portò davanti al tribunale, per «pretendere un’altra forma di governo che non fosse la repubblica», e da lì alla conciergerie, il carcere, dove continuò a scrivere contro il terrore giacobino e Robespierre, il suo leader, che per lei, che si era schierata con i girondini, non era «altro che obbrobrio ed esecrazione».
Verso il patibolo
Olympe fu ghigliottinata due settimane dopo Maria Antonietta. «Se la donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere ugualmente quello di salire alla tribuna», aveva scritto. A lei fu negata la tribuna. Fu schernita, ripudiata e presto dimenticata.
Olympe de Gouges non fu «la donna più virtuosa del suo tempo», come si autodefinì, ma «un’ignorante cui dobbiamo grandi scoperte», come osservò Mirabeau, attivista e teorico della rivoluzione francese. Molti dei suoi coetanei la considerarono una ribelle senza causa, ma le sue azioni seguivano una strategia minuziosamente pianificata.
Ebbe il coraggio di sollevare temi che gli stessi rivoluzionari trascurarono e mostrò di possedere grande spirito d’intraprendenza: le origini modeste e la mancanza d’istruzione non le impedirono di emanciparsi e di dare coraggiosamente voce alle sue convinzioni, sostenendo in modo concreto, a differenza di molti, il motto «liberté, égalité, fraternité».
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Per saperne di più
Olympe de Gouges e i diritti della donna. Sophie Mousset. Argo, Lecce, 2005
Fonte: Storica National Geografich