Di Ernesto Galli della Loggia
Il problema di Giorgia Meloni non è il Mes, non è questa o quella gaffe di qualche membro del suo entourage e neppure i periodici dissidi all’interno della sua maggioranza. Lo dico senza alcun compiacimento, ma il problema di Giorgia Meloni è lei stessa, il suo modo di interpretare il proprio ruolo, il contenuto che lei stessa è istintivamente portata ad attribuirgli. Tutte cose che fanno sì che la premier rischi di perdere la grande occasione che nel 2022 le aveva riservato il risultato elettorale: quella di lasciare un segno non effimero nella politica italiana. Non è un problema di stile ma di sostanza. E la sostanza è che alla presidente del Consiglio sembra essere difficile rivolgersi al Paese, parlare agli italiani anziché ai suoi compagni di partito. Non basta infatti invocare spesso la Nazione e la sacrosanta difesa dei suoi interessi (e magari, come è possibile, pure rivendicare in questo senso i propri meriti che almeno in parte certamente non mancano). Bisogna anche farlo con le parole e i toni giusti. Ad esempio senza stare di continuo a recriminare alla prima occasione sulle vere o presunte passate malefatte degli avversari, senza alzare di continuo i toni della polemica anziché smorzarli, senza stare sempre a eccitare l’applauso scrosciante della propria parte e gli ululati di disapprovazione di quella contraria. Tra l’altro così accreditando l’immagine che fin dall’inizio cerca di costruirle la sinistra: quella di una persona perennemente pervasa da un’incontenibile aggressività.
Nella realtà Giorgia Meloni gode di una condizione politica in complesso invidiabile. Non solo ha una maggioranza che, pur tra qualche mugugno, al dunque non può che seguirla e sostenerla, ma a fronteggiarla c’è un’opposizione che, sebbene pronta a cogliere qualunque occasione per farne un casus belli, in verità appare assai più divisa che compatta, a corto di argomenti, e sostanzialmente incapace di accrescere il proprio seguito. Ci sono tutte le condizioni, insomma, perché la premier possa sentirsi sufficientemente sicura di sé per prendere una strada diversa da quella presa finora. E cioè per mostrarsi amichevolmente superiore nei confronti degli avversari, per apparire desiderosa di unire anziché essere divisiva, per allargare il proprio seguito chiamando intorno a sé coloro che sono lontani ma per principio non ostili.
Proprio qui sta la differenza tra una destra d’ispirazione conservatrice e una destra espressione di un movimentismo nazional-populista. La prima è estranea al settarismo di partito, la seconda vi si alimenta; la prima è attenta a non incrinare l’unità del Paese, la seconda è ossessionata innanzi tutto dai propri nemici, la prima è convinta della cruciale importanza delle élite e delle istituzioni, la seconda pensa che si possa fare tranquillamente a meno di entrambe perché quelli che contano sono i capi; la prima, infine, pensa la Nazione sempre come il presupposto di una possibile e necessaria unione, la seconda viceversa come il fatale terreno di uno scontro, come il perenne preludio di una potenziale guerra civile.
Il destino politico di Giorgia Meloni dipende tutto dalla sua volontà/capacità di operare una scelta tra queste due culture politiche, di abbandonare la prima e scegliere la seconda. Due culture politiche che sembrano vicine (e in qualche circostanza possono esserlo anche) ma che in un senso più vero e profondo sono in realtà lontanissime. Il passato, le emozioni, i ricordi, la tengono avvinta ad una di esse, la possibilità di costruire un futuro non possono che sospingerla invece verso l’altra.
Certo, allontanarsi dalle proprie origini non è facile, ma ci sono decisioni che il proprio ruolo impone. Governare alla bell’e meglio per una stagione si può in ogni modo, una cosa diversa, invece, è essere alla guida di un Paese per un tratto della sua storia. Ci vogliono visione, determinazione, se necessario soprattutto il coraggio e la capacità di cambiare, di avere idee nuove.
Il problema di Giorgia Meloni, però, è che in politica non si può essere e fare da soli. Soprattutto la leadership politica è una cosa che si può esercitare solamente con un gruppo di persone intorno, con un gruppo di collaboratori. Si dà il caso, tuttavia, che l’«inner circle» intorno a Giorgia Meloni venga necessariamente tutto dal suo passato. Ed è facile immaginare che lei si fidi solo di loro, che conosce da una vita, così come, per un altro verso, è facile immaginare che quelli non abbiano alcuna voglia di aprirsi a nuove immissioni, di dividere il proprio potere di influenza e di decisione con qualche nuovo venuto. La presidente del Consiglio si trova presa così tra due fuochi. Da un lato la necessità di rafforzare il proprio avvenire politico, di renderlo più suo e personale rinnovandone e allargandone le basi dovrebbe spingerla a cercare di avere intorno a sé volti e voci nuove, dall’altra tutto ciò che la circonda la trattiene dal farlo.
Spezzare un legame con il passato che ogni giorno si rivela un vincolo per il presente: il futuro di Giorgia Meloni si gioca in buona parte qui. Ma i capi, i capi veri, sanno che spesso le decisioni che più contano hanno come prezzo la solitudine.
Fonte: Corriere