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Tommaso Campanèlla

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Filosofo (Stilo, Reggio di Calabria, 1568 – Parigi 1639). Entrato adolescente nell’ordine dei domenicani, venne formando la sua cultura filosofica soprattutto con la lettura dei platonici e di Telesio; a Napoli, dove si recò assai presto per contese con i suoi confratelli in Calabria, strinse amicizia con G. B. Della Porta interessandosi a ricerche e pratiche di magia e di astrologia. A Napoli pubblicò la Philosophia sensibus demonstrata (1591) e fu sottoposto a un processo per eresia (1592); successivamente a Padova subì un altro analogo processo e ancora un terzo a Roma (1596), terminato con la condanna e l’abiura; poco dopo un altro processo lo obbligò al ritorno in Calabria. Frattanto aveva scritto fra l’altro De Monarchia christianorum (1593), De regimine Ecclesiae (1593), Discorsi ai Principi d’Italia (1594), Dialogo contro Lutero, Calvinisti e altri eretici (1595). Le linee fondamentali del pensiero di C. sono già definite: l’antiaristotelismo, il panvitalismo, l’idea di una riforma politico-religiosa, il quadro astrologico-magico. Sono motivi che si ritrovano nei suoi discorsi del 1599 sulla universale palingenesi e che ispirarono la congiura che egli tramò contro il governo spagnolo in quello stesso anno; appariva a C. giunto il momento, segnato nei cieli e indicato nelle profezie, di una riforma religiosa e politica che, nell’imminenza della fine dei tempi, portasse il cristianesimo alla sua radice universale e naturale e instaurasse una forma di governo repubblicano fondata su principî filosofici. Scoperta la congiura, in cui si erano espresse anche forti aspirazioni di un rinnovamento sociale e varî modi di reazione all’oppressione spagnola e alla disciplina ecclesiastica, C. fu arrestato e tradotto a Napoli, ove nel 1602 fu condannato al carcere perpetuo. Restò in prigione ventisette anni: in questo periodo C. riuscì a lavorare e compose gran parte delle sue opere maggiori: la Monarchia di Spagna (1601), la Città del sole (v.), De sensu rerum (1603), Monarchia Messiae (1605), Antiveneti (1606), Atheismus triumphatus (1607), Philosophia rationalis (1619), Quod reminiscentur (1625). Liberato nel 1626, fu nuovamente rinchiuso nel carcere del Sant’Uffizio, donde fu liberato (1629) per la benevolenza di Urbano VIII (che gli aveva fatto dare il titolo di magister e lo teneva come consigliere in fatto di astrologia). Scoperta la congiura di G. F. Pignatelli a Napoli, la Spagna chiese l’estradizione del C., che il papa rifiutò, consigliando tuttavia al C. la fuga. Il 21 ott. 1634 il C. lasciò Roma e l’Italia: a Parigi, dove ebbe accoglienze amichevoli, poté finalmente iniziare la pubblicazione delle sue opere; ma la morte lo colse nel convento di Saint-Honoré, quando erano stati pubblicati solo cinque volumi. Prima di morire, aveva dettato a G. Naudé una sua autobiografia, De libris propriis et recta ratione studendi syntagma (postuma, 1642). Intorno al 1622, egli stesso aveva visto pubblicata una notevole scelta delle sue Poesie. ▭ Per la complessità di temi speculativi e la molteplicità d’interessi politico-religiosi che s’intrecciano nel pensiero di C., egli sembra raccogliere da un lato l’ultima eredità rinascimentale (soprattutto del platonismo fiorentino, del naturalismo telesiano e dei bruniani programmi di riforma), mentre dall’altro si volge a nuovi problemi quali quelli posti così dalla controriforma e dal nuovo assetto politico-sociale dell’Europa come dai nuovi orientamenti legati alle scoperte geografico-astronomiche e alla nascita della “nuova scienza”. Come per Bruno, nell’opera di C. non è possibile scindere la problematica che si sarebbe tentati di considerare più propriamente scientifico-filosofica da quella politico-religiosa che sembra dominare tanto la sua multiforme speculazione quanto la sua attività di congiurato, di profeta e di riformatore; anche l’interesse alle teorie e alle tecniche astrologico-magiche e alle possibilità aperte all’uomo dalla “nuova scienza” è sempre retto in C. da un desiderio di approntare i mezzi per la sognata riforma sociale e religiosa. Strettamente legato – soprattutto agli inizî – agli insegnamenti telesiani, C. svolge platonicamente una visione della natura come un tutto organico animato per la presenza ovunque di uno “spirito caldo e sottile”, corporeo, principio del sentire, dell’immaginare, del ricordare, del discorrere. Si definisce – come già in Telesio – un primato del sentire che significa primato della conoscenza diretta e immediata rispetto alla quale il conoscere universale è allontanamento dalla realtà, illanguidimento di conoscenza: che è il punto ove C. più si avvicina a certi temi dell’empirismo della nuova scienza, e che ricorda i legami di C. con Galileo del quale scriverà l’Apologia dopo la condanna romana. Conoscere come sentire e sentire come un farsi, anzi infarsi, immutarsi nell’oggetto, o meglio, percezione di questo immutarsi: sicché nel conoscere altro non conosciamo che la nostra “immutazione”, noi stessi (“semper ergo scire est scire sui”); essere e conoscere s’identificano nella conoscenza perché alla radice di ogni conoscenza sta l’ineliminabile certezza assoluta di essere. Tutti gli esseri – che in quanto sentono sono chiusi nell’immediatezza del sensus inditus o cognitio sui – hanno avuto da Dio la capacità di conservarsi, di amare sé stessi, di conoscere il proprio fine, manifestando così le primalitates divine (potentia, sapientia, amor); ma l’uomo emerge sugli altri esseri naturali perché nella sua natura accoglie e manifesta un impeto verso l’infinito, un’intuizione intellettuale che si radica nella mens data da Dio ai singoli uomini. Ma anche tale primato dell’uomo non scinde l’unità del tutto: questa è il fondamento di tutta la speculazione di C., che sembra a volte tentato di identificare Dio e natura. Del resto è proprio il senso vivo della radicale unità degli esseri che noi ritroviamo altresì nel suo pensiero religioso e politico: unità di natura che sembra esprimersi anche nell’indicazione del cristianesimo come religione universale in quanto naturale (nell’ambito di una natura che riceve completamento dalla divina rivelazione) e nel sogno della finale pacificazione di tutti gli uomini nell’unica fede e in una non scissa società civile, sogno di cui C. si sentiva profeta dopo averne letto nei cieli i segni dell’imminente realizzazione. ▭ Come poeta, il C. è oggi concordemente ritenuto il maggior lirico italiano del Seicento. La poesia del C., intesa a educare, a creare “nova progenie”, non al puro diletto al quale destinava la sua il contemporaneo Marino, è spesso difficile e rude; talora semplice traduzione ritmica di sottili concetti filosofici. Ma spesso raggiunge profonda efficacia, specie là dove il C. si descrive, novello Prometeo, torturato e invincibile, o là dove canta la “possanza dell’uomo” nudo e inerme, eppure padrone dell’universo, o contempla una natura, nella quale ogni cosa ha la sua anima e Dio è in ciascuno e in tutti.