«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
La vita degli esseri umani si dispiega nella consapevolezza di essere circoscritti da ogni parte da limiti e confini, ma anche dall’ostinata volontà di non accettazione delle restrizioni, che si traduce nel desiderio di superare ogni limite.
Il concetto di limite è associato all’idea di ostacolo, come se le due parole fossero sinonimi. La cultura dominante trasforma tutti i limiti in illusioni: il limite è solo apparente, perché una volta superato svanisce. Il superamento costante dei limiti sta compromettendo la vita stessa dell’uomo. La cultura occidentale del progresso ha costruito la società dell’abbondanza, non ci sono limiti al consumo e al flusso di desideri, continuamente indotti, perché funzionali al mantenimento del nostro sistema economico, dove è l’eccesso che diventa un valore perché agevola il superamento dei limiti, favorendo la loro trasformazione in illusione.
Sproniamo noi stessi e i nostri figli a essere forti, a fare del loro meglio per essere vincenti. Oltre a generare sofferenze e disagi il superamento dei limiti mette in evidenza l’esistenza stessa dei limiti. Anche le concezioni di spazio e tempo sono influenzate dall’illimitatezza. Il tempo è visto come qualcosa da riempire, più attività e impegni si riescono a mettere in agenda e più si raggiunge la pienezza della nostra vita, mentre la noia è concepita come perdita di tempo, diventa inutile e da evitare. Per questo motivo la ricerca ossessiva di impegni e l’iperattività sono tra i fenomeni più diffusi.
Considerando il significato etimologico, il concetto di limite deriva da due differenti sostantivi latini, limes e limen. Il primo assume un’accezione negativa di confine, che costituisce per l’uomo una barriera invalicabile, il secondo ha il valore di soglia ed è per l’uomo passaggio, apertura.
Il limite che definisce diventa prigione del pensiero, quando è rigido e non permette di guardare oltre, mentre la soglia è luogo della promessa e della speranza. A differenza del confine che può essere inteso come una linea statica, la soglia evoca sempre un passaggio, è il luogo dell’attesa, ma anche passo, valico.
L’uomo contemporaneo si mostra smarrito, incapace di autonomia e di visione critica. La sua capacità di reagire si rivela fragile, incapace di definire sé stesso e il suo rapporto con l’altro. L’incomunicabilità lo isola, lo rende ancora più solo. La cultura moderna aveva sacralizzato l’uomo liberandolo da tutti gli ostacoli che gli impedivano di essere pienamente sé stesso, ma ora ci accorgiamo come una tale sacralizzazione abbia di fatto prodotto nell’uomo l’annichilimento, il narcisistico ripiegamento in sé, la dolorosa incapacità di cogliere la complessità insita nella sua stessa esistenza. La sua singola individualità stenta a diventare persona. Ciò che caratterizza il disagio dell’uomo moderno sembra essere l’indicibilità della sua sofferenza, fatta di angoscia, di dolori, di frustrazioni e di vuoto. L’esperienza soggettiva della sofferenza può esser vissuta come indicibile e può diventare indecifrabile, quando non c’è nessuno che ascolta veramente quell’urlo o quel silenzio che strazia, che lacera e non concede sosta.
Non è una sensazione piacevole sentirsi bloccati, frenati e rendersi conto che non si riesce ad andare oltre. Quotidianamente veniamo a contatto con i nostri limiti. Già fin da piccoli si sperimenta il limite, i bambini vengono al mondo senza conoscere nient’altro che la propria volontà e, i genitori, per proteggerli pongono delle regole e danno dei confini con i quali rapportarsi al mondo esterno, nel rispetto nostro e degli altri.
Fare i conti con le limitazioni fa parte della nostra natura umana, alla quale facciamo fatica a adattarci. Il limite passa attraverso l’esperienza, è attraverso di essa che conosciamo il mondo e noi stessi. Il nostro limite è la paura, che si manifesta per la poca fiducia che abbiamo nelle nostre capacità. Sperimentare i nostri limiti ci porta a ridimensionare i nostri obiettivi.
Dalla cultura della perfezione all’esperienza di limite come risorsa.
Uno dei concetti di fondo che caratterizzano la nostra cultura è il concetto di perfezione. Le possibilità che la scienza e la tecnica offrono hanno creato una sorta di delirio di onnipotenza. La mentalità materialistica prevede che ogni desiderio possa essere realizzato. In questo clima di efficientismo esasperato la vita si trasforma in competizione continua. Con il mito della perfezione l’uomo ha perso il senso del limite. Il modello di uomo da raggiungere è quello che va oltre i propri limiti, ma senza rendersi conto che oltre il limite non c’è perfezione, ma la disumanizzazione. Focalizzare l’attenzione sulla performance e l’eccellenza porta a sentire di non essere mai abbastanza rispetto alle aspettative e alla convinzione di una presunta inadeguatezza personale.
Ogni fallimento, ogni errore mette tutti in crisi. La ricerca della perfezione impone delle regole che spesso distruggono ciò che si è, in vista di un irraggiungibile dover essere, tutto viene ridotto a competizione. La ricerca della perfezione disorienta l’uomo tanto da rendere insopportabile la sua esistenza. Chi tende alla perfezione finisce per vivere con le immagini di una realtà falsa.
La ricerca della perfezione è fuga dalle proprie radici, fuga dal quotidiano. La cultura dell’efficienza diventa il centro di tutto, di un io che si gioca tutto pur di arrivare. Quando l’io vede nell’altro un impedimento alla realizzazione del suo progetto, allora o lo tollera o lo elimina.
La filosofia si chiede quali siano le cause che hanno portato l’umanità sull’orlo del baratro. Secondo Heidegger è l’essere per la morte che ci umanizza e ci fa prendere coscienza dei nostri limiti. Il vivere- per-la-morte porta inevitabilmente all’esistenza autentica. L’intento di Heidegger è quello di educare alla morte e di insegnare ad accettarla. Morire significa essere consapevoli della propria finitezza e farsene carico senza fuggire. Il pensiero della morte mette in ginocchio il delirio di onnipotenza, ci rende meno arroganti, cambia radicalmente il nostro modo di valutare le cose, ci aiuta a distinguere ciò che è importante nella vita. Si passa così ad un sistema mentale che considera l’errore, l’insuccesso, il limite, come nemico della vita, ad una cultura che considera il limite come una realtà che non si può evitare.
Nel senso fisico la parola limite indica confine, nel senso esistenziale è qualcosa d’imperfetto, nel senso ontologico, il limite fa parte dell’essenza stessa dell’essere dell’uomo. Non è possibile fare qualcosa che non sia segnato dal limite.
Il limite non è solo privazione, non si può pensare ad esso solo come mancanza.
Essere limitati non è essere privi di qualcosa che era dovuto, ma essere ciò che naturalmente si è. Dare valore al limite vuol dire valorizzare la natura umana così com’è. L’imperfezione è qualcosa d’intrinseco alla vita. Bisogna imparare a vedersi non come esseri che sbagliano e falliscono, ma come esseri che proprio a partire dall’accettazione di ciò che si è, si cominciano ad aprirsi alla vita, che si affronta, traendo vantaggi nonostante gli errori. Anzi è proprio attraverso l’errore che possiamo sperimentare la vita in tutta la sua intensità. L’errore ci rende compatibili con l’umano. Il limite ci allena all’uso realistico di ciò che è fragile e imperfetto.
Non si può crescere come persone se si rifiuta il proprio limite, perché si rifiuta quello che si è.
Bisogna prendere coscienza che l’umanità dell’uomo non comincia con la ricerca della perfezione, ma dall’incontro con la propria impotenza. Quindi il limite è ciò che aiuta a capire l’uomo nella sua profondità. L’uomo incontra il limite, ma l’incontro non porta necessariamente alla sua accettazione
Il limite come apertura alla relazione.
La coscienza di essere limitati fa vivere in una condizione di povertà, ed è proprio in questa condizione che l’uomo ritrova la sua ricchezza. Il limite è la radice di un’immensa apertura. L’uomo sente il bisogno di superare il suo limite nella relazione, nell’incontro, nella comunicazione. Una relazione intesa non più come luogo di dominio, di possesso, ma come esperienza del proprio autolimitarsi per fare spazio all’alterità dell’altro. La coscienza del limite mi spinge ad uscire da me stesso e trasformare la paura in dialogo. Il limite dà spazio ad un nuovo modo di relazionarsi con sé stessi e con gli altri.
Tracciare il limite non è l’accettazione di una sconfitta, bensì è stabilire il proprio territorio, comprendere chi siamo. Saper mettere dei confini su chi siamo e su cosa sappiamo fare non significa imporci delle barriere, ma incrementare consapevolezza per affrontare le proprie sfide e un eventuale fallimento non andrà ad avere ripercussioni sulla propria fiducia in noi stessi.
Bisogna creare un equilibrio tra l’accettare ciò che non può essere cambiato e l’essere attivi rispetto alle proprie possibilità.
La mancata tolleranza dei limiti può generare un continuo inseguimento di desideri poco raggiungibili o il darsi standard non troppo elevati. Il risultato di questi atteggiamenti va a ripercuotersi sulla propria autostima e porta a sentirsi continuamente inadeguati. Al contrario le persone consapevoli di sé stesse sono capaci di venire a contatto con tutte le parti di sé.
È sbagliato pensare che chi ha stima di sé abbia una percezione di sé solo al positivo, in realtà è anche consapevole di tutti quegli aspetti di sé più disfunzionali. L’accettazione del limite è manifestazione di una grande forza e dignità, capaci di porre oltre il limite chi è da esso schiacciato. Il coraggio di esporsi alla sconfitta e la determinazione di accettare il limite si delineano come atteggiamenti che fondano la salute mentale di un individuo, mentre il controllo ossessivo sulla realtà e la sua spasmodica ricerca di sicurezza impediscono all’uomo di concepire la vita come adattamento creativo. Nel fallimento l’individuo è sfidato dalla realtà, è pronto a trascendersi. Posto di fronte al suo destino, l’uomo ha sempre qualcosa in suo potere, ha la possibilità di sperimentare scelte inedite, di attivare potenzialità sopite.
I limiti biologici imposti all’uomo dalla natura costituiscono uno stimolo per l’invenzione, per il progresso culturale. La cultura rappresenta il potere umano di trascendere il limite. Assumere il limite insito nella difficoltà relazionale e riconoscere l’altro ed essere da lui riconosciuto, significa sostenere l’altrui identità ed alimentare la propria, equivale a rendere possibile la reciprocità relazionale, e costruire la forma più sana di interazione umana. L’uomo riveste di senso la propria identità nella misura in cui fa dono di sé all’altro, è una reciprocità gratuita, che non attende restituzione o ricompensa, che accoglie per intero la fragilità della relazione e la debolezza dei suoi protagonisti. Il dono di sé è reso possibile non solo dalla diversità dell’altro, ma anche dal suo limite, dal suo bisogno, dalla sua mancanza. Non potrebbe esserci dono se non in risposta ad una qualche finitezza che l’altro presenta. Il limite, allora, non solo rende possibile il dono, ma diventa anche un aspetto indispensabile del reciproco relazionarsi.
In molteplici modi abbiamo bisogno l’uno dell’altro, abbiamo bisogno di qualcosa che non possediamo, questo qualcosa ci rimanda alla nostra finitezza, è il marchio inequivocabile della nostra reciproca dipendenza. Il dono non va considerato come una sottrazione, né come diminuzione di sé, ma al contrario come l’esperienza del pieno possesso di sé. Ognuno, infatti, non può donare ciò che non possiede, quindi nel dono, paradossalmente, sperimento il possesso di me, di ciò che sono, delle risorse e delle capacità che di me fanno parte e che mi costituiscono nella mia singolare individualità. Il donare all’altro svela me a me stesso, permette di conoscermi, di trasformare in realtà tangibile ciò che solo potenzialmente era racchiuso in me.
È il rapporto con l’altro che fonda e dà senso all’identità di ogni individuo.
Accettare il limite
Considerare il prendersi cura degli altri come donarsi totalmente è rischioso. Si finisce per negare le nostre esigenze e pensiamo che l’abnegazione, la rinuncia, il sacrificio siano il vero segreto. Con questo desiderio di perfezione e onnipotenza ci muoviamo nelle quotidiane relazioni di cura, scontrandoci col rifiuto, affrontando le prove e i fallimenti. Ci accorgiamo, così, del limite, viviamo il senso di colpa, ci sentiamo impotenti, sconfitti, persi. Ne consegue un senso di impotenza che porta alla resa, alla rinuncia. Muovendosi nell’aspirazione di riuscire in tutto di fronte all’esperienza del limite si percepiscono le incrinature del proprio operato e si tende a ripiegarsi su di sé, a chiudersi, contribuendo ad incrementare la distanza dall’ideale della perfezione, dall’immagine positiva di sé. È dal tentativo di nascondere il limite che si sviluppa il senso di inadeguatezza e di frustrazione per quanto non si riesce a fare o ad essere.
Il limite è una linea che divide, ma è anche punto estremo a cui può arrivare qualcosa, termine che non si può superare. Il limite non si prefigura soltanto come qualcosa che crea divisioni, che allontana, ma anche frontiera, cioè segno di attraversamento. Esso non segna solo ciò che non si può raggiungere, ma anche ciò a cui si può approdare: nel definire crea spazi di possibilità. Uno stile di vita proteso all’infinito vive il limite come paura e impedimento. Guardando le capacità degli altri e le competenze mancanti le si desidererà con ansia, sforzandosi sempre di essere diversi, alimentando inutili forme di conflittualità. Il limite potrà, invece, essere visto come risorsa e opportunità di crescita se alla lungimiranza di vedere oltre, si affiancherà l’attenzione alla propria presenza, a ciò che effettivamente si è. Se pensiamo che ad ogni imperfezione corrisponda una riduzione di valore personale, saremo costretti a subirne il peso e la sofferenza che queste esperienze portano con sé.
Il limite è connaturato con la persona, la abita da sempre. L’uomo che va verso il suo limite va verso la sua umanità. Il limite e la debolezza non sminuiscono il valore della relazione di cura, ma anzi la rendono più vera, più umana. Se impariamo a pensare agli aspetti di fragilità come cifra più autentica del nostro essere uomini, potremmo davvero prenderci cura degli altri. Affinché il miglioramento avvenga, occorre riconoscere le dimensioni difficili e attraversarle, con la fatica e la bellezza propria di ogni passaggio.
La consapevolezza del limite offre la possibilità di ridimensionare l’idea di infallibilità e onnipotenza.
L’esperienza del limite
L’esperienza del limite si accompagna al vissuto della perdita, della precarietà e della piccolezza. Il limite può identificarsi con un vuoto, una situazione di assenza di solidi punti di riferimento, di legami e di valori.
Il limite non è solo quello che la realtà ci impone dall’esterno, ma è quello che dobbiamo porci nella ricerca di un equilibrio tra l’agire con coscienza e la pretesa di modificare le situazioni. Riconoscere il limite significa valutare fin dove possiamo spingerci, qual è il massimo che possiamo dare senza eccedere. Questo ci spinge ad essere più indulgenti verso i nostri errori, a vivere i fallimenti senza cadere nell’ansia del perfezionismo, imparando a rialzarsi e riprendere il cammino.
Le situazioni difficili hanno in comune il dubbio, l’inquietudine, dove sembra che nulla accada, non offrono un punto fermo, un sostegno che dia fermezza. Il limite svolge la sua funzione di essere un rinvio alla trascendenza. Restare in ascolto dei propri limiti significa accettare la distanza, come spazio di riflessività. Il limite si trasforma in margine quando lascia intravedere possibilità di azione. Accogliere il limite è sapere di percorrere confini incerti, ma nutrire il desiderio della ricerca e la fiducia nel cambiamento.
Coltivare l’attesa
In un mondo che esalta la velocità pensare il limite vuol dire affermare atteggiamenti inconsueti quali l’attesa e la pazienza. L’attesa ci aiuta a combattere l’ansia dei risultati, la preoccupazione di giungere alla meta.
Abituati a tacere il limite viviamo la difficoltà di ammettere errori e fragilità, per paura del giudizio, per timore di perdere valore e dignità. Occorre, invece, tornare a condividere le situazioni di limite, aprirsi al dialogo. L’indicibile di fronte a cui il limite ci pone bisogna accoglierlo, è necessario far diventare racconto quelle situazioni in cui le fragilità attendono di essere districate, promuovendo un ascolto non giudicante, occorre non temere il limite, ma individuarlo, nominarlo e attraversarlo nella certezza di non essere soli.
Mai come nella presente fase storica l’uomo ha accarezzato il mito dell’onnipotenza, la convinzione di essere padrone della propria storia, di essere in grado di autodeterminarsi e di poter spostare sempre un po’ più in là la soglia della propria finitudine. Eppure, è proprio il senso del limite che ci restituisce la nostra umanità.
La questione del limite ci richiama ad un principio di realtà: la consapevolezza che ci sono eventi che sfuggono al nostro controllo, mancanze con cui dobbiamo imparare a convivere. È nel percepirci come esseri finiti e limitati che riusciamo a valorizzare appieno il tempo che ci è dato di vivere, a comprendere tutto ciò, che nella nostra quotidianità rimanda alla dimensione della fallibilità.
Affinché la consapevolezza della nostra fragilità non si trasformi in un alibi a rinunciare in partenza ad ogni sforzo, è però, indispensabile ricordare che, come esseri umani, siamo costantemente in bilico tra finitudine e trascendenza. La mancanza è una condizione che, se accettata, apre all’ “oltre”, alla trascendenza.
Se il limite, di cui siamo rivestiti, non è accettato, l’esistenza può trasformarsi in una finzione e divenire il tentativo di svincolarsi dai limiti senza mai riuscirvi, di negare la propria pochezza. L’essere umano tende a raggiungere cose sempre più grandi di quelle che ha, che di per sé non è un male, lo diviene se egli rifiuta la sua debolezza e intende gli obiettivi come dei diritti arrivando a pretendere di raggiungerli, invece che perseguirli con umiltà. L’umiltà è l’atteggiamento interiore che consente di valorizzare il limite, rendendolo un motivo di crescita e non di rammarico; è la virtù che permette di accettare la propria condizione senza desiderarne un’altra.
Il limite è nell’uomo un fattore propulsivo, in quanto genera il desiderio, che è il motore della volontà. Se l’uomo possedesse tutto, non cercherebbe nulla, la percezione del limite è fonte di nuove scoperte, perché suscita nell’uomo il desiderio di conoscere e di cercare. Il limite non è sempre sinonimo di imperfezione, ma è la radice stessa dell’apertura dell’uomo, è una scuola capace di insegnare quale sia il segreto della vita.
Chi è appagato non cerca, né lo fa chi è disperato. Cerca invece chi è povero, e ne fa motivo di crescita. Se accettata, la coscienza del limite, si trasforma in desiderio di aprirsi agli altri. L’antropologia del limite però non può risolversi in uno sterile elogio del limite, né dell’imperfezione in sé stessa. Ciò che va elogiato è l’essere umano e la sua umanità, intesa come qualità essenziale.
Il limite non deve diventare una sorta di ideologia da contrapporre al perfezionismo, anzi, deve apparire come il punto di partenza per un’esistenza sempre più umana, dove l’accettarsi e l’accettare dà spazio ad un nuovo modo di relazionarsi con sé stessi e con gli altri.
Accettare il proprio limite vuol dire aprirsi ad un cammino personale di libertà attraverso un nuovo modo di sentire, di pensare e di agire. Lo sviluppo è una capacità aperta alla crescita che non nega né esclude i limiti reali della persona.
Se si vuole ancora pensare ad un futuro dell’umanità si può pensarlo solo nell’ottica del limite.
Di Emanuela Trotta – fonte: https://filosofiaenuovisentieri.com/