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La nuova ventata di antisemitismo nelle università americane

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di Giovanni Cominelli

I mass media americani hanno dato conto in questi giorni della ventata di antisemitismo che ha investito le università americane dopo l’aggressione di Hamas a Israele del 7 ottobre. I campus americani hanno inneggiato all’intifada, al grido di “Palestina libera”. Gli slogan, i simboli usati, i comportamenti sono andati ben oltre il giudizio negativo sulla politica di Netanyahu. Riprodurre sui manifesti la figura eroica e stilizzata dei paracadutisti di Hamas, che scendono dal cielo a massacrare i giovani del Festival Nova che ballano; divulgare via TikTok la lettera di Osama Bin Laden agli americani, scritta nel 2002 per rivendicare la strage dell’11 settembre, nella quale si inneggia allo sterminio degli americani e degli ebrei; aggredire verbalmente e fisicamente gli studenti ebrei dei campus… tutti questi sono segnali che vanno ben oltre l’orizzonte della contestazione politica della politica israeliana e del sionismo, per inoltrarsi nel buio dell’antisemitismo. La comparsa degli slogan “There is only one solution, Intifada revolution” o “From the river (ndr. Il Giordano) to the sea (ndr. Il Mediterraneo)” indica un obiettivo assai più largo che la riconduzione di Israele nei confini territoriali previsti dalla Risoluzione ONU n. 242 del 1967: sono gli slogan dell’Iran e di Hamas, che invocano la cancellazione dello stato israeliano e degli ebrei che lo abitano.

Quali le cause di questa ventata, in cui l’antisionismo approda all’antisemitismo? Almeno due: la modifica della composizione etno-demografica della società americana, nella quale lo strato di origine europea è sempre più sottile, a vantaggio di arabi, di asiatici, di latino-americani, e la caduta della cultura filosofica dell’Occidente. Sta venendo avanti in America una generazione affascinata da nuove narrazioni, ispirate dal Wokismo e dalla Cancel culture. Così la storia dell’Occidente, degli Usa e dei paesi europei viene descritta come storia di colonialismo, imperialismo, razzismo, corruzione. Si dà, persino, il caso di influencer, i nuovi opinion maker, che si convertono all’Islam, non in quanto una delle risposte possibili alla fondamentale domanda religiosa, ma in quanto religione culturale, che contesta alla radice i fondamenti culturali dell’Occidente, di cui il primo è il valore assoluto della persona, lo stato di diritto, l’eguaglianza degli esseri umani, maschi e femmine, le liberà di coscienza, di parole, di stampa…

Come fa notare la rivista Wired, questo orientamento dei campus ha forse meno a che fare con la tradizionale polarizzazione destra/sinistra e di più con un crescente gap generazionale. Tuttavia, non si può negare che sia soprattutto a sinistra – alla Camera americana la mozione contro l’antisemitismo ha visto il voto contrario di 12 Democratici! – che sta avvenendo questo passaggio all’integralismo del politically correct, che arriva fino alla cosiddetta “Teoria critica della razza”, al razzismo anti-bianco – al quale ha reagito simmetricamente il suprematismo trumpiano – fino all’antisemitismo. Con visionaria lucidità aveva descritto queste mutazioni Allan Bloom nel suo libro del 1987 intitolato The Closing of the American Mind, nel quale criticava il relativismo, il “nichilismo senza abisso”, il nichilismo fatuo che fioriva già da allora nelle università americane, che stavano rinunciando ai saperi fondamentali, a distinguere tra il vero e il falso, ai principi fondativi della democrazia dell’Occidente. Era la denuncia, con largo anticipo, di una sorta di populismo accademico, in forza del quale la scuola e l’università non erano più monasteri di libertà intellettuale e di critica, ma piuttosto dei magazzini, dove venivano accumulate tutte le opinioni possibili, in nome del relativismo e dell’identità di singoli, gruppi e sette. Così, nonostante intenzioni e le apparenze, “la Mente americana” si andava chiudendo. Per parte sua Bloom si batteva per un ritorno dell’università ai classici occidentali della filosofia, della letteratura, dell’arte, della storia, alla lettura dei libri, alla paideia classica mirante alla ricerca del Bene attraverso la ragione. La sinistra liberal dell’epoca lo criticò pesantemente come conservatore e reazionario. Ora ne raccoglie i frutti.

In questi giorni però è accaduto che le tre rettrici di tre prestigiose università americane – Liz Magill della University of Pennsylvania, Claudine Gay di Harvard e Sally Kornbluth del Mit — siano state convocate dal Congresso americano per riferire sugli episodi di antisemitismo nei loro campus. Alla domanda se i loro studenti sarebbero stati puniti nel caso di apologia di genocidio degli ebrei, tutte e tre hanno risposto in modo incerto ed evasivo. Incalzata dalla deputata repubblicana Elise Stefanik, Liz Magill ha risposto che considerare l’invocazione del genocidio degli ebrei come una forma di bullismo o di abuso “dipende dal contesto”. Si sono trincerate dietro la difesa del “free speech”, che è oggetto del Primo emendamento e la base del movimento degli studenti di Berkeley nel 1964. Vero è che un conto è “opinare, plaudire, auspicare” un genocidio e un conto è tentare di praticarlo. Ma quando le parole – e che parole! – diventano motore di azione politica allora, appunto, il contesto cambia radicalmente. Si tratta di un attacco virulento al vivere comune, dal quale una democrazia si deve difendere con tutti gli strumenti e le leggi dello stato di diritto. “Dipende dal contesto” è con ciò diventato lo stigma negativo del nichilismo intellettuale e morale, che Bloom aveva denunciato. Qualcuno, dotato di spirito macabro, ha già proceduto a modificare virtualmente la famosa scritta che compare sul lager di Dachau: “Arbeit macht frei” con “It Depends from the Context”.

Un gruppo di 72 parlamentari repubblicani e di due democratici ha inviato una lettera ai board delle tre università per chiedere le dimissioni delle tre rettrici, definendo «l’esplosione dell’antisemitismo» nei campus universitari «un fallimento della leadership universitaria» e bollando le loro testimonianze come «ripugnanti». Così Liz Margill si è dimessa giovedì scorso, pur continuando a far parte del corpo accademico.

Eppure, si tratta di università che hanno elaborato codici rigorosissimi sugli LGBT+, sul “body shaming”, sul razzismo fino a esondare nel razzismo dell’antirazzismo, fino a sanzionare chi critica in nome del merito gli esiti delle affirmative actions. Se uno è negligente o incapace, lo si deve favorire nel percorso accademico solo perché è di pelle nera? In questi casi, il “free speech”  si è trasformato in maccartismo di sinistra, in nome di una neo-lingua e di un controllo orwelliano sulla correttezza del linguaggio fino al Wokismo estremo. Guai a sbagliare il “gender” nel rivolgerti ad una persona, rischi il reato di “misgender“!

Il fallimento morale e intellettuale dei tre templi maggiori, in cui si formano “i chierici”, gli intellettuali, la classe dirigente americana è certo, in primo luogo, questione americana. Ma non è una questione meramente interna. Riguarda l’intero Occidente, tocca le piazze d’Europa e d’Italia. Una quota della sinistra americana ed europea è antisemita. Questo è il fatto. Lo è diventata non per via di una riscoperta della razza. Troppo volgare e antiscientifico l’antisemitismo degli Anni ’30! Oggi muove dall’antimperialismo, dall’anticapitalismo, dal terzomondismo, dalla cancel culture e dal Wokismo. Tutte ragioni “di sinistra”! L’ignobile antisemitismo fondato su motivi “nobili”.

 
liberta’ Eguale