La filosofia hegeliana, per contro, si fonda su un pensiero “incarnato”, vitale, organico. In questo quadro si capisce perché, per esempio, il valore di diritto per Hegel non sta tanto nella sua astratta enunciazione o nella sua presunta tutela, quanto piuttosto nella concreta possibilità di esercitarlo
La critica fondamentale che Hegel muove al pensiero di Kant ha come obiettivo il suo formalismo astratto e intellettualistico. La filosofia hegeliana, per contro, si fonda su un pensiero “incarnato”, vitale, organico. In questo quadro si capisce perché, per esempio, il valore di diritto per Hegel non sta tanto nella sua astratta enunciazione o nella sua presunta tutela, quanto piuttosto nella concreta possibilità di esercitarlo. Un diritto che non si può utilizzare è un diritto di nessun valore. Il diritto di proprietà, solo per fare un esempio, senza la possibilità di acquisire la proprietà su un certo bene non può essere considerato come un reale diritto. Questi si manifestano, infatti, solo quando possono essere utilizzati. Ma se la valenza concreta di un diritto, quindi, continua Hegel, deriva dal suo utilizzo, affinché questo risulti legittimo è necessario che esso venga riconosciuto da parte dei soggetti sia privati che pubblici che costituiscono il contesto nel quale tale diritto viene effettivamente utilizzato. L’espressione di un diritto, dunque, come bene sottolinea Dean Moyar “è uno standard che coinvolge le relazioni con altri agenti nella misura in cui le azioni degli altri possono sostenere o distorcere il contesto espressivo” (Hegel’s Value. Justice as the Living Good, Oxford University Press, 2021).
Alla radice della necessità di “riconoscimento”
Ma il rapporto con gli altri, per Hegel, è fondamentale non solamente per quanto riguarda la possibilità di esprimere concretamente i propri diritti, ma anche per il soddisfacimento del bisogno, cui il filosofo attribuisce un ruolo centrale nella vita individuale e sociale, di “riconoscimento”. Alla radice della necessità di “riconoscimento” c’è il profondo legame che esiste tra l’esperienza individuale, la costruzione del significato del sé e la relazione con gli altri, la dipendenza e la vulnerabilità alla loro azione, al loro sguardo.
Se il posto che questa idea di riconoscimento occupa nella filosofia hegeliana è centrale, il concetto in sé non è certo nuovo nel panorama della filosofia europea della prima modernità. Axel Honneth che forse più di tutti, tra i contemporanei, ha esplorato e sviluppato le implicazioni di questa idea individua nel suo Riconoscimento. Storia di un’idea Europea (Feltrinelli, 2018) tre filoni principali: quello francofono inaugurato da Rousseau e che arriverà fino a Sartre, quello anglofono rappresentato principalmente da Hume e Smith e quello tedesco che va da Kant fino a Fichte e che vedrà con Hegel raggiungere la sua più alta sintesi.
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Un percorso che inizia con il crollo della civiltà feudale
Il problema del riconoscimento inizia ad emergere nella riflessione europea con il crollo della società feudale con le sue rigide strutture di classe e di funzione. Se in quel mondo lo status e i ruoli venivano vissuti come fissi e stabiliti per volontà divina con il suo superamento inizia ad affacciarsi una società flessibile dove il posto dei singoli può variare e inizia a dipendere sempre più da ciò che ciascuno pensa e crede e dal valore che riconosce a ciascun altro. Se il mio ruolo e il mio status sociale dipendono sempre più da ciò che gli altri pensano di me e sono disposti a concedermi, sarà naturale, così concludono i moralisti francesi dell’epoca, cercare di apparire migliori di come si è in realtà. Nasce e si sviluppa in questo modo una vera e propria antropologia dell’insincerità, per dirla con La Rochefoucauld. Il concetto fondamentale che in tale mondo regola i rapporti sociali è quello dell’amour-propre, una forma sofisticata di superbia mista ad autocompiacimento.
La spinta constante a fingere di essere migliori di quanto non si è in realtà non solo crea una incertezza ed un sospetto generalizzato nell’ambito delle relazioni interpersonali, ma produce un effetto straniante anche nei confronti del soggetto stesso. “Siamo così abituati a fingere di fronte agli altri – scrive La Rochefoucauld nella sua massima 119 – che finiamo per fingere anche di fronte a noi stessi”. “Riconoscere”, quindi, non significa in questo contesto solamente “dare”, attribuire stima e valore in base a qualità che vengono esibite; vuol dire anche e soprattutto “svelare”; riuscire cioè a comprendere quando realmente le qualità mostrate sono reali e sincere.
di Vittorio Pelligra – fonte: https://www.ilsole24ore.com/