di Loredana Lipperini
Da ieri aggiorniamo il conto, da ieri piangiamo ancora, da ieri pensiamo con rabbia a tutti coloro che, mentre nel nostro cuore sapevamo già della morte di Giulia Cecchettin, dicevano che come al solito le donne sono frettolose, ossessionate, odiatrici. Odio, già. Venerdì mattina sono stata bloccata da Facebook per aver pubblicato un post che “incitava all’odio”: conteneva un’intervista rilasciata da Stephen King nel 1998. King, com’è noto, è fra i non molti scrittori che racconta la violenza contro le donne in un numero considerevole di romanzi e racconti, e nel brano censurato diceva che gli uomini hanno una propensione alla violenza: «Molti di noi sono come alcuni aeroplani. Ricordi il volo TWA 800, quello che esplose sopra Long Island? Ci fu un problema elettrico e il fuoco si appiccò alle ali. È quel che avviene al ragazzo che scatta improvvisamente, al ragazzo che ha il fuoco nelle ali». Poi aggiunse: «Mi ricordo una ragazza. Aveva un livido sotto l’occhio. “Che è successo?”, le ho detto. “Non voglio parlarne”, ha risposto lei. “Andiamo a prenderci un caffè”, ho proposto. Era successo che era stata con un ragazzo, e quel ragazzo voleva fare qualcosa che lei non voleva fare. Così, lui l’ha picchiata. Non l’ho mai dimenticato. Ricordo di averle detto: “Ci vuole coraggio per uscire con un ragazzo, vero? Quel ragazzo ti attrae, forse ti interessa. Ma quel che stai pensando, in fondo è Sto per entrare nella tua macchina. Sto per andare con te da qualche parte. Sto per aver fede nel fatto che mi riporterai indietro intera. Ci vuole coraggio”. Lei mi ha risposto: “Tu non potrai mai saperlo”. Gli uomini sono un pericolo. Siamo grossi animali”». Non so in quale parte di questo discorso Facebook abbia rinvenuto l’incitamento all’odio: quel che so è che sull’odio è urgente discutere. Sarebbe ancora più interessante sapere perché Facebook non blocchi gli account di persone che fanno del bodyshaming verso le donne il proprio pane quotidiano. Più interessante ancora sarebbe mettere sul tavolo della discussione quanto le decisioni di Facebook influiscano sulla diffusione della violenza maschile, nel momento in cui l’algoritmo, su segnalazione, banna King e lascia scivolare fra le maglie gli insulti. C’entra con l’orribile morte di Giulia Cecchettin? C’entra. Da anni due sociologhe, Lucia Bainotti e Silvia Semenzin, stanno facendo un lavoro enorme sul rapporto fra odio on line e violenza off line. Quel che è chiaro da tutti gli studi (come quello del Servizio Ricerca del Parlamento europeo) è che le donne sono le prime vittime del web in termini di attacchi, minacce e umiliazioni, specie se si espongono come politiche, giornaliste, attiviste. Il 52% delle donne intervistate ha subito e subisce abusi on line, e accade quasi regolarmente che Facebook, ma anche Instagram e X, diventino «megafoni di istanze antifemministe e attacchi pubblici alle donne che si impegnano a far sentire la propria voce». Naturalmente non basta, anche se sarebbe molto importante che gli uomini che in questa settimana hanno postato insulti contro le giornaliste che si sono occupate di Giulia Cecchettin divenissero finalmente consapevoli che anche le parole che sembrano ininfluenti contribuiscono a formare quel clima velenoso in cui altri uomini vedono alzarsi e crescere le fiamme sulle ali. Naturalmente ci vuole di più: ci vuole il ripristino dei 17 milioni dei fondi per la prevenzione della violenza di genere appena ridotti a 5. E ci vorrebbe che, in accordo, le due donne protagoniste della politica italiana, Giorgia Meloni ed Elly Schlein, facessero di tutto per far approvare il disegno di legge che riguarda la violenza di genere fermo al Senato, e per avere finalmente una norma per l’educazione sentimentale a scuola, come proposto da Schlein: cosa che sembra impossibile ottenere e che è invece la via maestra perché i giovani uomini apprendano la grammatica delle relazioni e le giovani donne possano crescere libere, senza temere che il ragazzo con cui si sono fatte fotografare in un campo di fiori, un giorno, getti il loro cadavere in un canalone.
Fonte: La Stampa