Type to search

Salari bassi di chi è la colpa

Share

Esiste un’indiscutibile questione salariale in Italia, ma non solo. Nella maggior parte dei Paesi Ocse la crescita dei salari ha rallentato dopo la crisi del 2008 e l’inflazione ha eroso significativamente il potere d’acquisto dei lavoratori. Ma da nessuna parte come in Italia il problema è così profondo e radicato nel tempo. Tra il 1990 e il 2020, i redditi da lavoro annuali in parità di potere d’acquisto sono scesi del 1%, mentre, nello stesso periodo, sono aumentati del 48% negli Usa del 33% in Francia, del 30% in Germania. Anche la Spagna che ha avuto una performance non lusinghiera ha comunque registrato un +3%. Quello che differenzia l’Italia da Usa, Francia e Germania sono salari stagnanti, ma soprattutto la crescita del tempo parziale e dei contratti temporanei (un elemento in comune con la Spagna). Di chi è la colpa? Com’è noto dal Dopoguerra fino agli Anni ‘90 l’Italia è cresciuta rapidamente, registrando una rapida convergenza verso le economie più ricche, una sorta di “Cina d’Europa”. Dalla metà dei Novanta, il processo di convergenza si è interrotto. L’indiziato numero uno dietro questo stop abbastanza improvviso è un blocco del carburante principale della crescita economica che è la produttività, cioè quanto “bravi” siamo a produrre con le risorse disponibili. Dopo decenni di crescita, la produttività oraria del lavoro, cioè quanto si produce per ogni ora di lavoro, era arrivata nel 1995 persino a superare quella degli Usa. Poi, come si vede nel grafico in pagina, la crescita della produttività si è sostanzialmente fermata. E non solo la produttività del lavoro. Tra il 1995 e il 2021, la crescita media annua della produttività del capitale, cioè la capacità del capitale di creare valore aggiunto, è scesa dello 0,7 mentre la produttività totale dei fattori, che riflette l’efficienza complessiva del processo produttivo, è rimasta ferma a zero. Il problema è particolarmente marcato nel settore dei servizi e nelle micro-imprese. Ma anche la manifattura, che resta una riserva di lavoro di qualità e buoni salari, la produttività cresce meno che negli altri Paesi. Il rallentamento della crescita della produttività è un fenomeno che tocca molti altri paesi e le cause non sono del tutto chiare. Secondo alcuni, è dovuta a innovazione inferiore in quantità e qualità rispetto a quella di 50 o anche solo 30 anni fa in una situazione di invecchiamento della popolazione e minor domanda di investimenti. Secondo altri, invece, è principalmente un problema di misura: l’impatto delle nuove tecnologie (molte disponibili gratuitamente online) non è ben catturato nel calcolo del Pil. Infine, per altri, i “tecno-ottimisti”, è solo questione di tempo: le nuove tecnologie tipo l’intelligenza artificiale devono ancora dispiegare tutto il proprio potenziale. In Italia, a questi fenomeni globali si sommano problematiche tutte nazionali che vanno dal funzionamento del settore pubblico, anche a livello locale, a investimenti in tecnologia scarsi, fino alla scarsa meritocrazia o a una contrattazione aziendale ancora poco sviluppata. Una spiegazione che personalmente trovo convincente (anche se sicuramente non è l’unica) è che l’Italia abbia mancato la rivoluzione informatica degli Anni ’90 per una serie di ragioni legate alla struttura delle aziende e alla loro organizzazione interna. Per sfruttare appieno i vantaggi delle tecnologie informatiche, infatti, non basta attaccare un computer alla presa. Si devono riorganizzare i luoghi di lavoro utilizzando un modello di gestione meritocratico e orientato ai risultati. Negli Usa a partire dagli Anni Novanta, questo è stato fatto e la produttività ha accelerato. In Europa molto meno, anche Francia e Germania hanno perso terreno ma l’Italia più di tutti gli altri. Ancora oggi il Paese si trova in un equilibrio al ribasso con scarso investimento in formazione e scarsa domanda di competenze da parte delle imprese. Da una parte, più di 13 milioni di adulti hanno competenze linguistiche e matematiche di basso livello e l’investimento in capitale umano è modesto. Dall’altra parte, la domanda di formazione, in particolare nelle piccole imprese, resta limitata nonostante le risorse private, nazionali ed europee a disposizione. E le competenze degli imprenditori, proprietari d’azienda e manager stessi sono inferiori a quelle che si riscontrano in altri Paesi. Bassa offerta e bassa domanda di competenze fanno dell’Italia un’economia che in certi segmenti sembra più in concorrenza con gli Emergenti che con i propri partner europei e Ocse. Ma invece di essere un vantaggio per il sistema economico, questo costituisce la condanna definitiva perché, in una competizione basata sul salario più basso, ovviamente i Paesi in via di sviluppo hanno un vantaggio evidente. In conclusione, è chiaro che dietro alla questione salariale italiana non c’è un solo problema e quindi non ci può essere una sola soluzione. Una strategia complessiva deve attaccare il problema da più lati: da una parte garantire minimi salariali adeguati (per legge o via la contrattazione) e assicurare che poi questi vengano rispettati modernizzando gli strumenti di controllo e ispezione a partire da un uso più intelligente dei dati già a disposizione. In parallelo, il sistema di welfare deve essere disegnato in modo tale da incentivare al massimo l’occupazione e il lavoro a tempo pieno. Infine, serve affrontare le debolezze macroeconomiche e di politica industriale e gli investimenti in istruzione e formazione, con l’obiettivo di aumentare quantità e qualità del lavoro nel nostro Paese. Vasto programma certo (ma qualcuno pensa si possano recuperare trent’anni di stasi con un colpo di penna?). Ma che assomiglia molto a quello del Pnrr. Motivo in più per augurarsi che funzioni.

Fonte: La Stampa