Roma, 8 nov. – La voce che all’alba del 19 ottobre svegliò Mahmoud Shaheen parlava un arabo perfetto, era pacata e chiara. Il messaggio che portava era categorico e inequivocabile: “Chiamo per conto dell’intelligence israeliana”, disse, “tra due ore bombarderemo le torri, dovete andarvene da lì”. La voce all’altro capo gli si era rivolta chiamandolo con il suo nome completo e all’improvviso Mahmoud capì che di lì a poco avrebbe dovuto dire addio al suo appartamento di tre camere da letto al terzo piano di un edifico di al-Zahra, una zona borghese nel nord della Striscia di Gaza.
Fino ad allora il suo quartiere era rimasto in gran parte indenne dagli attacchi aerei, ma la chiamata alle 6,30 di mattina lo stava avvertendo che quell’illusione di immunità era finita.
Fuori il clamore cresceva: la gente urlava “dovete scappare, bombarderanno le torri”.
Mentre lasciava il suo edificio e attraversava la strada, in cerca di un posto sicuro, il suo telefono squillò di nuovo. Era la stessa voce che chiama per mettere le cose in chiaro: la torre in cui si trovava il suo appartamento non era direttamente minacciata, ma doveva considerarsi responsabile dell’evacuazione di centinaia di persone.
Guidato da voci sconosciute, che sembravano sempre sapere come raggiungerlo anche quando la batteria era scarica, implorò che i bombardamenti cessassero e urlò fino a farsi dolere la gola perché la gente scappasse.
Talvolta l’esercito israeliano ha telefonato agli abitanti di Gaza per avvisarli prima degli attacchi aerei: il racconto di Mahmoud fornisce uno spaccato di una di queste telefonate con un livello di dettaglio senza precedenti.
La BBC ha contattato Mahmoud dopo che diversi residenti di al-Zahra lo hanno identificato come l’uomo che aveva ricevuto la chiamata di avvertimento.
Quel giorno l’esercito israeliano colpì almeno 25 isolati di edifici residenziali che ospitavano centinaia di appartamenti, distruggendo un intero quartiere. Ma prima che cominciassero a piovere le bombe, Mahmoud aveva avuto il sospetto che potesse trattarsi di uno scherzo di pessimo gusto o di un atto di guerra psicologica.
Dall’inizio del conflitto, nel gruppo Facebook della comunità circolavano messaggi che avvertivano di chiamate false e offrivano suggerimenti su come identificare i veri ordini di evacuazione israeliani.
Mahmoud chiese alla voce al telefono di sparare un colpo di avvertimento per dimostrare che la minaccia era reale. Fu accontentato: un colpo apparentemente dal nulla, forse sparato da un drone, centrò uno dei condomini minacciati.
Capito che tutto era drammaticamente vero, Mahmoud cercò di prendere tempo, per permettere a quanta più gente possibile di mettersi al riparo.
Quella mattina centinaia di persone si riversarono nelle strade solitamente pacifiche del quartiere, alcuni ancora in pigiama.
L’area – appena a nord del fiume Wadi – era costituita da moderni condomini, negozi, caffè, università, scuole, e parchi. Fu in questi parchi che la gente cominciò a riunirsi.
Mahmoud non riusciva a capire perché il suo quartiere fosse diventato un bersaglio. Quando lo chiese, la voce rispose, laconica: “Ci sono cose che tu non vedi, ma noi si”.
Quando le zone attorno agli edifici furono sgombrate l’uomo informò Mahmoud che sarebbero iniziati i bombardamenti.
Il dentista fu preso dal panico: e se avessero bombardato l’edificio sbagliato? “Aspetta un attimo” ebbe appena il tempo di dire alla voce all’altro capo, mente un aereo israeliano volteggiava sopra di lui.
Poi cominciò l’inferno.
Era solo l’inizio: per giorni Mahmoud fu contattato da voci, sempre diverse, che lo avvertivano di bombardamenti prossimi e gli indicavano quali condomini dovevano essere sgomberati al più presto.
Alla fine della sua storia, decine di isolati erano stati rasi al suolo, centinaia di appartamenti erano stati sbriciolati e migliaia di persone erano senza una casa.
Nelle orecchie di Mahmoud continuava a risuonare lo squillo di quella chiamata anonima e poi quella voce, in arabo impeccabile: “Chiamo per conto dell’intelligence israeliana”.