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Mafia: caso Agostino, la lunga strada della verità

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La svolta giudiziaria era arrivata 32 anni dopo l’omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie incinta, Ida Castelluccio. Il 19 marzo 2021, nel giorno della festa della papà: un dono tardo e amaro a papà Vincenzo Agostino, con la sua lunga barba: quel giorno era arrivato il verdetto del gup di Palermo, Alfredo Montalto, che inflisse l’ergastolo per Nino Madonia, accusato di duplice omicidio aggravato, che aveva optato per l’abbreviato. Sentenza confermata adesso in appello. Gli altri due imputati, il boss dell’Arenella Gaetano Scotto, accusato del duplice omicidio aggravato, e Francesco Paolo Rizzuto, uno amico di Nino Agostino, accusato di favoreggiamento, invece hanno optato per il rito ordinario: l’accusa, in questo procedimento che si celebra dinanzi alla Corte di assise presieduta da Sergio Gulotta (giudice a latere Monica Sammartino), avrà tre udienze per la discussione: il 16 ottobre, il 9 e il 24 novembre.
Augusta Schiera, deceduta a 80 anni il 28 febbraio del 2019, non ha avuto il tempo di assistere a questo primo passo. Sulla sua lapide volle lasciare scritto: “Qui giace Augusta Schiera, mamma dell’agente Nino Agostino, una donna in attesa di verità e giustizia anche dopo la morte”.
Era un luglio 2020 caldissimo quando piombò la richiesta della procura generale di Palermo. Il 10 settembre dello stesso anno era iniziata l’udienza preliminare davanti al giudice Alfredo Montalto. Un delitto dal movente, ha sottolineato la procura generale nel suo atto d’accusa, che si è rivelato di “peculiare complessità”, poiché “ambientato nel torbido terreno di rapporti opachi tra componenti elitarie di Cosa nostra ed alcuni esponenti infedeli delle istituzioni”.

QUELLA BARBA BIANCA
La sera del 5 agosto 1989 l’agente della polizia di Stato Antonino Agostino e la giovane moglie incinta, Giovanna Ida Castelluccio, furono uccisi a colpi d’arma da fuoco davanti all’ingresso dell’abitazione estiva della famiglia Agostino, a Villagrazia di Carini. A sparare due killer giunti a bordo di una moto di grossa cilindrata. Da allora il papà dell’agente, Vincenzo Agostino, non si è più tagliato la lunga barba bianca in attesa di verità e giustizia.

“TORBIDI RAPPORTI BOSS-ISTITUZIONI”
Le indagini si sono rivelate sin da subito particolarmente complesse, principalmente “per alcune evidenti anomalie”, secondo l’accusa. In primo luogo, risultava assente “un qualsiasi movente plausibile”. Dalle prime investigazioni e in specie dalle dichiarazioni dei suoi ‘superiori’, Nino Agostino appariva essere un agente addetto al servizio Volanti del commissariato di Palermo – San Lorenzo, che non aveva mai svolto attività investigativa né, tantomeno, ricoperto incarichi sensibili. Nessuna ombra del resto, vi era mai stata sulla sua vita professionale. In secondo luogo “erano stati sottratti alla conoscenza della magistratura documenti essenziali per l’accertamento della causa dell’omicidio”, mediante la distruzione di manoscritti di Agostino ritrovati nel corso di una perquisizione eseguita dopo il delitto. (AGI)

(AGI) – Palermo, 5 ott. – L’accertamento dei fatti è stato “altresì ostacolato dalla iniziale reticenza di vari soggetti informati della segreta operatività di Agostino nell’ambito di una struttura di intelligence”, rilevava l’accusa, nonché dall’assenza di dichiarazioni di collaboratori di giustizia, “indici entrambi del regime di segretezza che aveva caratterizzato l’ultimo segmento di vita della vittima e le ragioni della sua uccisione che dovevano restare occulte anche all’interno di Cosa nostra”.
Nella complessa ricostruzione della procura generale di Palermo, basata sulle indagini condotte dalla Dia e su inedite dichiarazioni di collaboratori di giustizia, di persone informate, su intercettazioni e su risultanze investigative acquisite nell’ambito di un’attività di coordinamento con altre procure, è emerso che l’agente Agostino, ha assolto anche ‘mansioni coperte’, che esulavano dai suoi compiti ordinari istituzionali, con particolare riferimento a iniziative svolte insieme a esponenti di spicco dei Servizi di sicurezza ed apparentemente finalizzate alla ricerca di grossi latitanti di mafia.  Acquisite le dichiarazioni da parte di alcuni collaboratori di giustizia sugli esecutori materiali del delitto, indicati in Gaetano Scotto e Antonino Madonia, nonché in ordine al movente, “ambientato nel torbido terreno di rapporti opachi tra componenti elitarie di Cosa nostra e alcuni esponenti infedeli delle istituzioni.

“UCCISO PERCHÉ SCOPRI’ PEZZI INFEDELI DELLO STATO”
Agostino faceva parte, insieme a Emanuele Piazza, Giovanni Aiello (detto ‘Faccia da mostro’), Guido Paolilli (anche lui agente della polizia di Stato che aveva provveduto a reclutare lo stesso Agostino), e altri componenti allora apicali dei Servizi di sicurezza, di una struttura di intelligence che, “in fase di reclutamento”, spiegava la Dia, “veniva rappresentata con la finalità della ricerca di latitanti, ma che in realtà si occupava di gestire complesse relazioni di cointeressenza tra alcuni infedeli appartenenti alle istituzioni e Cosa nostra”. E’ venuto fuori, pure, “da molteplici prove”, che Agostino aveva, nell’ultima parte della sua vita, compreso le reali finalità della struttura cui apparteneva. A quella struttura Agostino aveva offerto una pista “molto seria” – legata a familiari della moglie – per giungere alla cattura di Totò Riina a San Giuseppe Jato; e da essa si era allontanato poco prima del suo matrimonio, “fatto – sottolineava l’accusa – che era stato posto a fondamento della decisione di uccidere lui e la moglie”.

007 E DEPISTAGGI, LA STRUTTURA DEVIATA
In particolare, furono oggetto dell’istruttoria i rapporti di appartenenti alle istituzioni con Madonia, incontrastato capo del mandamento di Resuttana, e Scotto, anche lui appartenente allo stesso mandamento e da sempre indicato come trait d’union con appartenenti ai Servizi. Le prove raccolte riguardano non solo dichiarazioni di collaboratori attendibili (Vito Galatolo, Giovanni Brusca, Francesco Marino Mannoia, Francesco Di Carlo, Giuseppe Marchese, Francesco Onorato) ma anche di testimoni vicini ad Agostino, colleghi e familiari. Intercettazioni hanno poi “dimostrato il coinvolgimento della struttura in alcuni importanti depistaggi”.

“L’AMICO DI NINO MENTI'”
Nel contesto delle nuove indagini era emersa la figura di Francesco Paolo Rizzuto, detto “Paolotto”, nel 1989 ancora minorenne, amico personale di Antonino Agostino. Come risulta in atti, al momento del duplice omicidio si trovava sul posto e la notte precedente aveva partecipato con Antonino ad una battuta di pesca.
Successivamente, i due avevano dormito presso l’abitazione estiva degli Agostino a Villagrazia di Carini. La mattina dopo, Agostino si sarebbe recato in ufficio, mentre Rizzuto si sarebbe attardato presso gli Agostino. In base ad attività tecniche riservate, ora al vaglio del gup, sarebbe stato accertato che Rizzuto, in più occasioni, avrebbe reso dichiarazioni false in ordine a quanto accaduto nel giorno e nel luogo in cui fu commesso il delitto e, in generale, su quanto a sua conoscenza.

Tramite intercettazioni è risultato, secondo i magistrati, che Rizzuto ha dichiarato a un parente di avere visto Agostino a terra sanguinante e di essersi sporcato la maglietta indossata piegandosi sul corpo ormai esanime dell’amico, per poi fuggire buttando via l’indumento, precisando di non aver mai riferito tale circostanza quando venne sentito, poco dopo l’omicidio.
“Noi riteniamo di avere provato – aveva sostenuto l’accusa nel corso della prima requisitoria – che l’omicidio Agostino-Castelluccio ha avuto una duplice causale e che a commetterlo sono stati Antonino Madonia Antonino e Gaetano Scotto”. Nino Agostino era un poliziotto del commissariato San Lorenzo, che ricade nel mandamento sotto il controllo di Madonia, ma anche un cacciatore di latitanti per conto del Sisde. Questa è la prima causale. In quel periodo infatti in Cosa nostra, su ordine di Riina, parte la caccia agli ‘spioni’. Agostino è uno di questi che verranno uccisi (così come, nello stesso periodo e con le stesse motivazioni vengono assassinati Giacomo Palazzolo nel maggio ’89, Gaetano Genova e Emanuele Piazza nel marzo 1990).
La seconda causale convergente è che Agostino “viene ucciso – avevano detto i rappresentanti dell’accusa – perché venuto a conoscenza di fatti concernenti i legami segreti tra la mafia ed esponenti della polizia e dei Servizi”. Agostino “vide Bruno Contrada e Giovanni Aiello (‘Faccia da mostro’, ndr) incontrarsi con i Madonia e con i Galatolo. Nessuno del mandamento capeggiato da Nino Madonia avrebbe potuto commettere il delitto senza il suo mandato o senza il suo assenso. Stante la segretezza – spiegava l’accusa – la causale e gli autori del duplice delitto Nino Madonia invece di dare mandato ad altri scese direttamente in campo anche come esecutore”.
​    Una storia di indagini mancate, di ripetuti depistaggi alle indagini che per oltre tre decenni non hanno consentito di raggiungere la verità, quanto meno giudiziaria. Era stato duro il legale di parte civile, Fabio Repici: “Gaetano Scotto e Nino Madonia sono gli esecutori materiali dell’omicidio di Agostino e di sua moglie. E non poteva essere altrimenti. Poiché Madonia era stato delegato da Totò Riina a mantenere i contatti con apparati dello Stato, polizia e servizi di sicurezza. Contatti che dovevano restare riservati e non potevano essere messi a rischio in nessun modo: per questo Nino Agostino era un ostacolo che andava eliminato. I depistaggi? Erano finalizzati nascondere i responsabili che avevano operato in concorso con soggetti della polizia di stato e del Sisde”. (AGI)
MRG