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Matt Dillon: «La passione che mi muove»

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Alcune parole in italiano suonano meglio. Per Matt Dillon, per esempio, «grattacielo» ha tutt’altro sapore rispetto all’inglese. A chiedergli la sua parola italiana preferita, l’attore cresciuto poco fuori New York si mette a ridere. Poi, però, si fa serio: «Voglio pensarci bene… direi “magari”. Perché è una espressione tutta vostra. Quando la sento, non sempre capisco cosa significa esattamente. Ognuno ci mette dentro quello che vuole e questo mi piace molto». Cinquantanove anni, con 40 di carriera già festeggiati, trasformista, bad boy del cinema americano, Dillon ormai da diversi anni viene in Italia ogni volta che può, per questioni di cuore ma anche per senso di appartenenza: «La considero la mia seconda casa», racconta. Stavolta ha appena ricevuto a Todi, all’Umbria Cinema Festival, diretto dal regista Paolo Genovese, il Premio Speciale Umbria Cinema: «Mi piacciono i Festival piccoli come questo perché ci ricordano come andrebbero proiettati i film, ossia sempre su un grande schermo».

Che cosa le piace di più dell’Italia?
«Non saprei, è tutto bello. Vorrei solo avere più tempo libero da passare qui. Ho sempre sentito un legame speciale fin da quando sono venuto per la prima volta, ero molto giovane, avevo appena lavorato con Francis Ford Coppola. So di non essere l’unico a pensare che l’Italia sia un luogo magico, ma mi sono sempre sentito accolto dalla cultura italiana, dal pubblico. In un certo senso mi sento più a casa qui che in una qualsiasi città degli Stati Uniti, escludendo New York».

Che effetto fa festeggiare 40 anni di carriera?
«Vuol dire che sono 40 anni che sono in grado di guadagnarmi da vivere facendo quello che faccio, e già questo di per sé è motivo di gratitudine. Ciò che mi piace di più del mio lavoro è la parte creativa, non mi fa impazzire il lato commerciale dell’industria cinematografica. Devo essere sincero, amo soprattutto quando vengono creati i personaggi, la scrittura e la regia. E quando ti piace così tanto qualcosa è come lavorare senza lavorare. Anche se voglio essere molto chiaro: si tratta di un lavoro duro. Fare un film richiede molte ore di lavoro, recitare è divertente, ma a volte può essere molto faticoso».

Al primo provino della sua vita, per Giovani guerrieri di Jonathan Kaplan, aveva 14 anni. Pro e contro di iniziare così giovani?
«La cosa positiva è che se inizi così presto quello che fai diventa parte di te, come se fosse una cosa davvero molto naturale. Interpretare un personaggio oggi mi sembra semplice e innato. L’aspetto negativo è che impari sul campo. Quando ripenso ad alcune cose che ho fatto da giovane mi dico “non ci posso credere, adesso lo farei in modo totalmente diverso”».

Che momento sta vivendo oggi Hollywood?
«Quello in cui le cose cambiano, e cambiano velocemente a causa della tecnologia. Avendo iniziato molto tempo fa, ho già visto cambiare l’industria cinematografica diverse volte. Ora, per esempio, ci troviamo nel bel mezzo di uno sciopero di attori e sceneggiatori. Non sappiamo quando durerà, ma credo sia molto importante perché negli ultimi 10-15 anni l’industria cinematografica è cambiata in modo davvero radicale e quindi devono essere fatti degli aggiustamenti. Quando le persone non lavorano, come in queste settimane di sciopero, è sempre un problema, ma alla fine è meglio per tutti. È giusto che i sindacati proteggano i lavoratori. Lo streaming e le piattaforme hanno davvero cambiato tutto. La gente ha smesso di andare al cinema, tutti guardano i film a casa, per questo i festival cinematografici per me sono molto importanti. Non dimenticherò mai le sensazioni che provavo da ragazzino quando entravo in un cinema buio. Voglio, però, sottolineare una cosa. È cambiata la tecnica con cui si raccontano le storie, ma non la volontà di raccontarle. La narrazione resterà sempre al centro finché gli esseri umani saranno pensanti. L’intelligenza artificiale non potrà mai prendere il nostro posto».

Che cosa pensa, invece, del cinema italiano degli ultimi anni?
«Mentirei se dicessi di essere un esperto in materia, ma non posso fare a meno di notare che nell’ultimo decennio o giù di lì il cinema italiano è tornato ad avere la centralità di un tempo. Apprezzo molto registi come Garrone e Sorrentino, mi piacerebbe lavorare con loro».

Se dovesse sceglierne uno soltanto, qual è il set che ricorda con più intensità?
«Considero speciale il film che ho scritto e diretto, anche se ovviamente non sono in grado di giudicarlo. E poi ci sono alcuni personaggi che ho interpretato nel corso degli anni. Mi piacciono i ruoli sorprendenti, come ad esempio quello in Factotum, un piccolo film in cui ero l’alter ego di Bukowski. Mi è piaciuto lavorare con Lars von Trier perché ti porta fuori dalla tua zona di comfort. Ti fa sentire a disagio e questo è un bene».

Guardare indietro solitamente le appartiene?
«Sì, perché non dovrei? Sono appena stato in Cambogia per il 20esimo anniversario di un film che ho girato lì. Proiettarlo oggi per il pubblico e per i giovani studenti di cinema è stato molto importante. Spesso quando si gira un film si pensa solo al successo che potrebbe avere, alle recensioni o ai premi che potrebbe vincere, ma la verità è che la vera ricompensa è l’esperienza che maturiamo nel farlo. E io guardando indietro vedo tanti bei ricordi».

Avere una passione aiuta a vivere meglio?
«Beh è tutto. La mia credo sia la creatività, in qualsiasi campo. Fare l’attore è il mio lavoro principale, poi c’è quello di regista e sceneggiatore. Mi piace anche dipingere. Per diversi anni ho avuto l’ossessione di voler suonare la batteria. E in quei momenti per me era fondamentale farlo anche se probabilmente mi mancava il talento. C’era grande curiosità e per me era sufficiente».

Fonte: Vanity Fair