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Il mondo plurale di Bruno Latour

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Di recente è venuto a mancare un filosofo importante, Bruno Latour. Qual era il suo pensiero e la sua eredità intellettuale?

di Enrico Monacelli

Ho speso buona parte del 2022 a Bruxelles. Ero in Belgio per il mio dottorato, per il mio periodo di studio all’estero. Stavo in una strada in discesa che partiva dalla fontana di piazza Ambiorix. Vivevo in un monolocale con pareti arancione squillante, un colore pallido e assurdo che faceva brillare ogni segno lasciato da chi, come me, era passato di lì per qualche mese, settimana, giorno. Restare di più in quella città mi sembrava impensabile. Le luci ronzavano, fuori batteva quella pioggia sottile che sembra essere una caratteristica climatica tipicamente belga. Sarei stato lì per sei mesi – che poi divennero cinque appena mi accorsi, o, meglio, scesi a patti col fatto che il dolore non era nelle pareti o nella pioggia, ma in me. Non mi sopportavo e Bruxelles non poteva farci nulla.

A tenermi insieme c’era un misto di gratitudine e sbigottimento. Le strade che stavo calpestando le avevano percorse autori e autrici a me cari; le sorelle Brontë, Charlotte ed Emily, ci avevano vissuto: Charlotte ci scrisse su il suo Vilette; Emily si limitò a morirci di nostalgia. Auden parlava di Bruxelles quando scrisse le sue parole più struggenti sul dolore. E prima di partire scoprì che lì aveva vissuto anche Gottfried Benn – ma non fingerò di essere così colto da apprezzare davvero Gottfried Benn.

Questa strana euforia non era causata solo dai miei morti illustri. Bruxelles non era solo una casa infestata. Il mio lavoro di ricerca mi portava davanti a persone con cui facevo fatica a spiccicare mezza parola – un po’ per sincera reverenza, un po’ per il mio francese socialmente inaccettabile. Isabelle Stengers, una delle esponenti più brillanti del nuovo materialismo contemporaneo, ad esempio. Ogni volta che entravo in aula lei era lì. Fino alla fine non mi è sembrato reale. C’erano anche presenze indirette altrettanto vive nel gruppo di ricerca in cui lavoravo. Maestri di maestri la cui voce mi giungeva indirettamente durante i seminari e le chiacchere informali. Bruno Latour, su tutti. Le voci che arrivavano da e su Latour, però, erano tutto fuorché rincuoranti. Latour sta male. Sta tenendo incontri per sviluppare la sua filosofia – “un’ultima volta” restava implicito. Sente che il suo lavoro non è ancora finito, vorrebbe trovare persone in grado di farsene carico. Specialmente la sua Enquête sur les modes d’existence, ancora inedita (chissà per quanto) in Italia, reclama un seguito e dei critici, si diceva spesso. Mi ripromisi di scrivergli una mail. Alla fine, il mio lavoro partiva proprio da lui, da quel testo per di più, e avevo drasticamente ridotto i nostri gradi di separazione. Non trovai il coraggio di farlo. Bruno Latour, oggi, è morto.

Per quanto rimpianga la mia mail più volte abortita, la morte non si è portata via ogni cosa. Anzi, la tragedia ci ha forse messo nella condizione di agire, finalmente. Dopotutto, non avere più Bruno Latour qui con noi ha reso, per forza di cose, la sua posterità un problema più urgente e pressante. Ora che importunarlo non è più un’opzione, che farcene di tutto questo? Che ne sarà domani del lavoro di uno dei pensatori più radicali e acuti del nostro presente? Domande che, a dire il vero, noi amanti, haters o semplicemente lettori di Bruno Latour, abbiamo forse parzialmente evitato, almeno fino ad oggi. Con ottime ragioni, probabilmente. Un po’ perché il lavoro di Latour, poliedrico e per certi versi inafferrabile, dava l’idea di essere un sistema ancora in fieri. Un organismo ancora nel pieno del suo processo di maturazione. Un po’ perché lo stesso pensiero di Latour ci ha sempre vietato di pensarlo come un maestro da ereditare o un autore da catalogare. Dissacratore ironico qual era, non donava fra le pagine mute di un archivio.

La prima passione filosofica di Latour fu l’esegesi biblica. Ai tempi dell’università era, per sua stessa ammissione, un cattolico militante. Iniziò il dottorato sotto la supervisione del filosofo francese Michel Serres. La sua tesi di dottorato, Exégèse et ontologie: à propos de la resurrection, già anticipava, seppur sottovoce, quelli che sarebbero stati i suoi interessi teorici principali: le tecnologie che utilizziamo per darci una forma.

In quel caso, le tecnologie prese in considerazione erano le più ubique e invisibili di tutte, il linguaggio e la parola scritta. Il progetto che correva, implicito o addirittura inconscio, in tutto il suo esordio era creare, attraverso l’esegesi biblica, una sorta di etnografia dei parlanti. Che tipo di animale è l’animale che usa quelle tecniche? Come cambia? Che caratteristiche sviluppa? Per quanto non fosse poi così centrale in quello scritto, questa, a posteriori, fu la sua idea più profonda. Quella che lo accompagnò per tutto il suo tragitto filosofico e con cui si confrontò in ogni suo scritto: non esistono umani, esseri già formati e definiti, ma esistono creature che si danno una forma interagendo con congegni di loro invenzione e con il grande fuori del cosmo. Il punto, per Latour, non era tanto capire che cosa fossimo o da dove arrivassimo, ma ricostruire la trama di questo intreccio fra esseri viventi, macchine e l’immensità che sta là fuori – trama che poteva evidentemente essere ricostruita in molti modi, anche l’esegesi biblica.

Le reali conseguenze di questa sua intuizione le trasse, però, solo qualche anno dopo, affinando le sue armi teoriche e spostando la sua attenzione su una tecnologia più circoscritta e recente: il laboratorio. Nel 1979 si recò in California, al Salk Institute. Iniziò a frequentare un laboratorio di neuroendocrinologia per imparare le pratiche, i costumi e le abitudini che contraddistinguo i popoli che abitano i laboratori in cui si produce conoscenza scientifica. Quello che voleva osservare, Latour, era proprio quell’intreccio di viventi, macchine e cosmo che gli era sembrato di vedere nell’esegesi biblica visti, però, questa volta, in un contesto ben più circoscritto. Un contesto, il laboratorio scientifico, che ha prodotto alcune delle scoperte che più hanno dato forma alla nostra vita quotidiana – dovremmo forse precisare cosa intendiamo per “nostra” – che, però, esiste come istituzione socioculturale da relativamente poco; spesso fuori dagli occhi indiscreti di chi in un laboratorio non ci ha mai messo piede, per di più. Latour decise, in altre parole, di studiare, come farebbe un antropologo, un luogo quintessenziale dell’esistenza contemporanea, luogo spesso invisibile o mistificato, per capire che tipo di animale si muove e si forma lì dentro. Il risultato di queste ricerche fu Laboratory Life: the Social Construction of Scientific Facts, pubblicato insieme a Steve Wooglar.

Il sottotitolo anticipa con quale tesi emerse Latour dal suo studio sul campo. Quando si parla di scienza, anche fra gli epistemologi più avveduti, si tende a dipingerla come un campo in cui regnano i fatti, una serie di verità acquisite e solide. E ci si immagina questi fatti come il prodotto del lavoro in laboratorio. Un lavoro sostanzialmente lineare e razionale a cui abbiamo affibbiato il nome di metodo scientifico: si considera una tesi, la si mette alla prova, si ripete l’esperimento e si saggia la veridicità di quanto ipotizzato. Il tutto spesso guidato da un solo scienziato, in grado di gestire scientemente la catena di comando e i possibili imprevisti. Alla fine, emerge un fatto. Secondo Latour, questo quadretto così irenico del lavoro scientifico nasconde una serie di questioni spinose. Su tutte, il fatto (no pun intended) che nulla del lavoro di uno scienziato in un laboratorio è così lineare e che i supposti fatti sono tutt’altro che acquisiti o solidi.

Un fatto scientifico, sempre stando a Latour, è molto più simile al punto di intersezione di vari fili tesi, fatti di materiali estremamente eterogenei. Nella costruzione di un fatto scientifico concorrono varie pratiche e svariati metodi, spesso assolutamente esterni o addirittura in aperto conflitto. Un fatto scientifico è il prodotto della vita sociale del laboratorio presa nel suo intero: i calcoli economici, i posizionamenti politici, le convinzioni religiose e, soprattutto, il partito preso delle cose – tutte quelle risposte più o meno complicate che il materiale non-umano dà quando viene messo alla prova dalle pratiche del laboratorio. Raramente questo groviglio interessa un singolo, geniale scienziato e altrettanto raramente segue quel movimento lineare che passa dalla tesi all’esperimento alla ripetizione e finisce nel risultato. Chi lavora in laboratorio è parte di una moltitudine al lavoro, spesso composta non solo da scienziati, e di uno sciame di messaggi e input provenienti da umani e non. « Ogni mattina i lavoratori entrano in laboratorio portando il pranzo in sacchetti di carta marrone. I tecnici iniziano subito a preparare i test, a preparare i tavoli chirurgici e a pesare i prodotti chimici. Raccolgono i dati dai contatori che hanno lavorato durante la notte. Le segretarie siedono alle macchine da scrivere e iniziano a correggere i manoscritti che sono inevitabilmente in ritardo rispetto alle scadenze di pubblicazione. I collaboratori, alcuni dei quali sono arrivati prima, entrano nell’area dell’ufficio uno per uno e si scambiano brevemente informazioni su ciò che verrà fatto durante la giornata. Dopo un po’ se ne vanno ai loro banchi. Custodi e altri lavoratori consegnano carichi di animali, prodotti chimici freschi e mucchi di posta. Si dice che l’intero sforzo lavorativo sia guidato da un campo invisibile o, più in particolare, da un puzzle, la cui natura è già stata decisa e che può essere risolto oggi». Insomma, la matassa che ci vede legati al resto dell’esistente è molto più ampia di quanto ci potremmo aspettare. Nulla, a questo mondo, è lineare, razionale, pulito. Nemmeno il laboratorio, incarnazione della ragione moderna.

Questa visione non si limitò ad un’antropologia critica del laboratorio. Anzi, si può dire che questo lavoro etnografico fosse giusto la bozza di un progetto decisamente più ampio. La rivalutazione del laboratorio e delle pratiche che prendono luogo lì dentro doveva essere, infatti, l’incipit di una rivoluzione copernicana della “nostra” ontologia. O, perlomeno, di quella mappa del mondo che la razionalità moderna occidentale aveva preso per buona. Gli estremi di questa mappa, quelli che Latour si era dato il compito di transvalutare, erano all’incirca questi: che il mondo si divide quasi sempre in due, seguendo la linea della distinzione fra soggetto (umano) e oggetto (non-umano, o trattato come tale); che il soggetto umano sia il custode e agisca secondo ragione; che questa stessa mappa del mondo sia sempre chiara e leggibile ai nostri occhi. L’ambizioso compito che chiamava Latour non era tanto distruggere questa mappa, vecchia e logora, ma costruirne una nuova – una che funzionasse meglio per noi e per tutto l’esistente. Per costruire la sua di mappa Latour scrisse una sorta di biografia Louis Pasteur, padre della vaccinazione e unico scienziato ad apparire nella toponomastica di tutta Francia – oltre che su ogni cartone del latte, ovviamente. Il suo obbiettivo era trasfigurare il volto che la storia e la cultura ci avevano tramandato di questo scienziato per mostrare come una nuova visione del mondo potesse essere agita, messa all’opera. Il titolo di questa biografia acida è Les microbes.

La biografia latoruaina di Pasteur inizia, in prima battuta, da un luogo controintuitivo, Guerra e pace di Tolstoj. In particolare, Latour riprende un episodio ben specifico: la vittoria del generale Kutuzov a Tarutino, il 6 ottobre 1812. Ricordando l’episodio, Tolstoj notava in maniera caustica come gli storici, specialmente gli storici francesi, avessero creato un’immagine non falsa, ma certamente distorta dell’accaduto. Raccontavano, infatti, di un generale che aveva vinto la battaglia seguendo un piano razionale, preciso, lineare. Storia che non aveva nulla a che fare con l’effettiva realtà del conflitto, che somigliava molto di più, a ben guardare, a una sequela di errori, spintoni, interventi casuali e colpi di fortuna. Il genio del singolo, per Tolstoj, non era che una piccolissima parte di un mondo più vasto, che il generale o qualsiasi altro individuo non poteva assolutamente controllare. «Se nei resoconti degli storici, in particolare quelli francesi, troviamo che le loro guerre e le loro battaglie sono conformi a piani prestabiliti, l’unica conclusione che si può trarre è che i loro racconti non sono veritieri», concludeva caustico Tolstoj.

Il genio di Kutuzov era stato, semmai, seguire i movimenti caotici del mondo reale che si dispiegava davanti a lui. Altro che controllo razionale! Davanti a questa ricostruzione iconoclastica, ricostruzione che ridimensiona drasticamente il ruolo dell’uomo e fa emergere le forze eterogenee del mondo, Latour iniziò a domandarsi se lo stesso, forse, non valesse per tutti gli altri eroi che punteggiano la storia della nostra modernità. Eroi come Napoleone o come, appunto, Louis Pasteur. «Quale conclusione dobbiamo trarre quando sentiamo gli storici, soprattutto quelli francesi, descrivere non la vittoria o la sconfitta di Napoleone, ma le vittorie di Pasteur, l’altro genio francese, sui microbi?»

La risposta di Latour a questa questione è ovviamente enfaticamente affermativa. È certo, per Latour, che le scoperte di Pasteur non furono l’opera geniale e razionale di un singolo individuo. Al contrario, furono il prodotto di una collaborazione spesso molto accidentata fra una moltitudine di attori, umani e non. Pasteur certamente agì, con il suo intelletto ed estro, in questo gomitolo di eventi, ma fu parte di una moltitudine senza la quale nulla di tutto questo sarebbe stato possibile. La sua battaglia contro i microbi non fu la marcia solitaria di un unico genio, ma il risultato del conflitto perenne di tutto ciò che esiste.

L’obbiettivo di questa deflazione della genialità solitaria di Pasteur superava, però, Pasteur stesso. Il bersaglio critico di Latour non era certo Louis Pasteur in quanto uomo o scienziato. Il suo obbiettivo era l’immagine del mondo che si perpetuava nell’immagine di Pasteur. L’immagine di un uomo singolo, distaccato dalla matassa dell’esistente, capace di controllare il mondo. La mappa ontologica che Latour voleva costruire, al contrario, dipingeva l’uomo come un punto in una rete mobile e policentrica; come una minuscola porzione di un conflitto fra forze talmente diverse fra loro da essere quasi incomparabili. Un essere, quello umano, aggrappato in maniera volatile al resto del mondo, come tutti gli altri, preso in una costante negoziazione con il pullulare di tutto il cosmo che lo circondano. Latour voleva creare, in altre parole, un’immagine pluralista del mondo, in cui ogni essere potesse trovare il suo posto, reclamare la propria specifica posizione, difendere i propri valori e bisogni. Anche i più estranei dall’essere umano. Tutti. In questa nuova mappa ontologica ci sono, dunque,tutte le forze del mondo, con la loro azioni e reazioni e i loro modi di sopravvivere. «Ci sono solo prove di forza e di debolezza. O più semplicemente, ci sono solo prove. Questo è il mio punto di partenza: un verbo, “provare”».

Questa fu l’idea che Latour perseguì in tutta la sua opera. Cercò spasmodicamente di difendere e sviluppare un mondo coerentemente pluralista. In quella famosa Enquête sur les modes d’existence che ancora cerca eredi, opera di qualche decennio successiva al suo atto vandalico ai danni del povero Louis Pasteur, affermava, ad esempio, che: «Tutte le debolezze dei dialoghi abortiti sulla diversità delle culture, sulla pluralità dei mondi, sulla futura composizione di un mondo comune, sugli universali da estendere, si spiegano con restrizioni mentali di questo tipo, con un bizzarro mix di irenismo e condiscendenza. In ambienti come questo, nessuno paga il prezzo ontologico dell’apertura mentale. Parole diverse, un’unica realtà. Pluralismo delle rappresentazioni, monismo dell’essere. E, di conseguenza, nessun uso della diplomazia, perché ogni rappresentante è convinto che in fondo l’arbitrato sia già avvenuto, altrove, a un livello superiore; ogni parte è convinta che esista una distribuzione ottimale, un arbitro insindacabile e quindi, da qualche parte, un Game Master. In ultima analisi, non c’è nulla da negoziare. La violenza riprende sotto l’apparenza benevola della ragione più accomodante. Non siamo progrediti di una virgola dall’epoca del Giudizio Divino: “Bruciateli tutti; il Reale riconoscerà i suoi!”». La battaglia di Latour fu sempre quella di superare l’idea che esistesse un Uno – specialmente un Uno dal volto umano – capace di comprendere tutte le forze del mondo.

O forse così mi piace credere. Sarà deformazione accademica o sindrome dell’impostore, sta di fatto che sento le lacune nel mio ricordo di Latour premermi contro. Ok, il pluralismo. Ma la sua filosofia della Terra? Il suo impegno politico? E la critica dei moderni? Il pluralismo è certamente il punto di partenza del (anti-)sistema latouriano, ma c’è molto di più. Eppure, ciò che mi resta di Latour è proprio questa sua idea che mi folgorò. Mi resta la passione e il mio parzialissimo interesse per una sezione – centrale, certo, ma pure sempre una sezione – del suo lascito. E forse è giusto che ciò che resterà del suo lavoro sia ciò che ancora parla alla moltitudine di forze che, come me, si abbatteranno sulle sue pagine.

 

Fonte: indiscreto.org/