Type to search

L’abolizione della naja

Share

L’abolizione della naja, il servizio di leva obbligatorio, rappresenta un cambiamento significativo sia nei rapporti tra cittadini e Stato sia nella concezione del ruolo che i militari devono ricoprire nella vita civile di un Paese

di Fatima Farina

Il 23 agosto 2004 viene approvata la cosiddetta legge Martino, dal nome dell’allora ministro della Difesa nel governo Berlusconi bis. La legge trovò ampia accoglienza trasversalmente ai partiti di centrodestra e di centrosinistra (votarono contro Rifondazione comunista e Verdi). La legge anticipava la sospensione della leva in tempo di pace prevista dalla legge delega 331/2000 approvata dal governo D’Alema.

Si interrompe in questo modo la storia del servizio di leva obbligatorio che va dalla sua istituzione nell’Italia unitaria alla sua riconferma alla nascita della Repubblica, quando la leva militare diviene un dispositivo compensativo dell’esautorazione, operata dal ventennio fascista, dei diritti politici e sociali. Essa rimanda alla difesa militare di popolo, connotandola al maschile. L’esclusione delle donne viene infatti sancita durante la stesura della Carta costituzionale il cui articolo 52 definisce obbligatorio il servizio militare ma «nei limiti e nei modi consentiti dalla legge». Scelta che fu contrastata da quanti propendevano per una forma di servizio militare universale, esteso a uomini e donne, come sosteneva Aldo Moro giudicandola coerente con la funzione della forza armata italiana che si andava definendo come esclusivamente difensiva. Anche Palmiro Togliatti parteggiava per la partecipazione delle donne e un impiego limitato, in caso di guerra, in ruoli di supporto agli uomini. Mentre alla vigilia del riconoscimento del diritto di voto delle donne il concetto di cittadinanza acquisiva un’accezione trasversale ai sessi, l’istituzione militare manteneva la sua matrice sessuata, confermando le forze armate luogo di elezione maschile.

Nella nascente Repubblica, la leva ha svolto una funzione importante nel promuovere la rottura dell’isolamento regionale, occasione di mobilità e di contaminazione dell’allora dominante uso dei dialetti con la lingua italiana

Fatto di non poco conto considerando che la leva, nella nascente Repubblica, ha svolto una funzione sociale importante nel promuovere la fuoriuscita dall’isolamento regionale, occasione di mobilità ma soprattutto di contaminazione, dell’allora dominante uso dei dialetti, con la lingua italiana. Sono i giovani italiani a mantenere tale privilegio in virtù del dovere loro assegnato di difesa della «patria», il quale però comincia a deprezzarsi in seguito alle trasformazioni sociali a partire dagli anni Settanta e ancor più dagli anni Ottanta, con la messa in discussione del modello maschile dominante, del militarismo e dell’autoritarismo, in un sistema di coscrizione solo formalmente universalistico, nella pratica da tempo relegato a fasce di cittadini maschi dalle ridotte vie d’uscita nei confronti di un obbligo di leva che, obiezione di coscienza a parte, nei fatti smentiva la proclamazione di un diritto legato alla cittadinanza. A ridurre definitivamente il terreno di aderenza di tale istituto sono i mutamenti geopolitici globali. La fine della Guerra fredda ha spinto molte nazioni ad abbandonare la coscrizione per approdare a modelli più agevoli operativamente e maggiormente marziali, ripristinandosi nel post deterrenza il ricorso alla guerra per ragioni economiche, politiche e persino di esportazione di democrazia e avendo il cittadino soldato perso consenso nell’era della deterrenza, quando le forze armate erano perlopiù utilizzate per scopi non prettamente militari.

La leva è stata peraltro il fondamento culturale di un divenire uomo riconosciuto socialmente nell’esperienza del servizio militare come formativo, nonché del «fascino della divisa» (sempre maschile) rispondente a un sistema di relazioni tra uomo fascinante e donna fascinata, sostantivo del ruolo pubblico e privato, su cui la stessa istituzione militare, come comunità maschile, si è lungamente forgiata nelle sue strutture materiali e simboliche.

La produzione di cittadini – militari maschi – si esaurisce definitivamente negli anni Novanta, portandosi a compimento la trasformazione della naja in noia, perdendo di vista i singoli, l’istituzione e la società tutta, il legame con lo scopo. Emerge invece disaffezione e distanza dalla funzione assegnata dall’Assemblea costituente, nonché dalla società plurale per cui la preclusione per sesso diviene un’anacronistica eccezione.

Inoltre, il fenomeno del nonnismo contribuisce a rivelare una delle criticità del regime di reclutamento. Particolarmente diffuso tra i militari di leva, costitutiva un elemento di regolazione interna della socializzazione alla vita militare dei più giovani da parte appunto dei nonni, i più anziani in servizio. Riti e pratiche d’iniziazione al ruolo militare su cui l’istituzione ha mantenuto nel tempo un atteggiamento ambivalente, fino a contrastarlo negli anni Novanta, al verificarsi di episodi di estrema gravità a seguito dei quali si sono attuate misure di contenimento, come il numero verde dell’Esercito per incoraggiare le denunce e l’emersione del fenomeno, nonché prevenirlo.

L’adozione di un modello professionale al principio degli anni Duemila sancisce un ruolo sempre meno legato al mantenimento della pace nelle operazioni internazionali, su cui le forze armate italiane si erano specializzate riacquistando visibilità

Intanto si progetta il nuovo modello di difesa, contando i giorni all’alba della fine della naja, di fatto sospesa nel 2005. L’adozione di un modello professionale al principio degli anni Duemila sancisce un ruolo sempre meno legato al mantenimento della pace nelle operazioni internazionali, su cui le forze armate italiane si erano specializzate riacquistando visibilità. Il ricorso al personale di leva nelle missioni italiane all’estero di Libano, Albania e soprattutto Somalia, cominciò a essere considerato un fattore di vulnerabilità, sia operativa sia mediatica, esponendo, il ferimento o la perdita di militari di leva, al dissenso e alla caduta di legittimazione.

Il passaggio al sistema professionale ha permesso di abbattere i vincoli di impiego delle forze armate italiane nei teatri operativi nella stagione inaugurata con la partecipazione italiana alla Prima guerra del Golfo del 1991, in Kosovo, fino all’Afganistan. La forzatura della pace si concreta in un impiego sempre più spinto verso il combattimento, con feriti e caduti, anche donne. L’adeguamento dello strumento militare ha mutato dall’interno l’essere militare: l’operatività e il combattimento diventano una concreta aspettativa per chi si arruola, non più una remota possibilità minacciosa da deterrenza. Si tratta di un passaggio di paradigma a sostegno di un ruolo internazionale del Paese che si gioca significativamente sul dispiegamento bellico e sul primato della scelta individuale. Venendo meno il cittadino soldato lo strumento militare risulta più orientato al core della missione militare, in un assetto di guerra permanente.

La sospensione della leva ha inoltre mutato il legame tra forze armate e società circa l’alternativa al servizio militare, vale a dire il servizio civile, che prese le mosse dalla rivendicazione del diritto all’obiezione di coscienza, riconosciuta per legge nel 1972. Subordinata alla valutazione delle motivazioni di chi obiettava, essa riguardava dapprima una minoranza poi cresciuta significativamente. Le domande degli obiettori passano tra il 1990 e il 1994 da 30.000 a 70.000 e nel 1998 la legge 230 riconosce a pieno titolo il diritto all’obiezione e a servire il Paese con l’alternativa del servizio civile. Questo, gestito dal 2000 dall’Ufficio nazionale servizio civile, diviene una scelta volontaria per cui optano in maggioranza le ragazze, con oltre la metà del totale su circa 50.000 volontari l’anno.

Oggi, il Pnrr Italia prevede di incentivare la partecipazione dei giovani e delle giovani al servizio civile universale, prefigurando così uno scenario su cui varrebbe la pena di riflettere. Senza discussione sulla messa a punto di uno strumento militare ridotto nei numeri ma maggiormente dispiegato, anche nello spazio civile quotidiano (anche durante la pandemia da Covid-19), si guarda alla cittadinanza da incentivare nel suo attivismo, attraverso un servizio da svolgere nella comunità, quale strumento di orientamento professionale e lavorativo. Il cittadino attivo ha sostituito il cittadino soldato. Dall’obbligo militare all’obbligo performativo il legame tra individuo e società si andato profondamente ridefinendo.

Fonte: Rivista il Mulino