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DonBass, se Ucraina e Russia prendessero ad esempio “le Opzioni del 1939” dell’Alto Adige”

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di Andrea Di Michele

l’accordo del 1939 tra Germania nazista e Italia fascista riguardante l’Alto Adige. Negli ultimi mei del 1939, la popolazione di lingua tedesca del territorio dell’attuale provincia di Bolzano e della Valcanale in provincia di Udine fu posta davanti alla scelta di emigrare nel Reich o rimanere nelle proprie case abbandonando qualsiasi prospettiva di mantenimento della propria identità linguistica e nazionale. L’accordo nasceva dall’esigenza dei due alleati di risolvere definitivamente un elemento di frizione posto ai confini tra Italia e Germania. Anche a seguito di un’aggressiva azione propagandistica dei nazisti, la stragrande maggioranza dei sudtirolesi optò per il Reich e di questi, circa 77.000 emigrarono.

 

IL PUNTO DI PARTENZA

Ben presto, dopo la fine della prima guerra mondiale, partiti e opinione pubblica di Germania e Austria si dimostrarono particolarmente sensibili alle sorti del Sudtirolo annesso al Regno d’Italia. Ciò in particolare dopo la presa del potere del fascismo e l’avvio della sua dura politica d’italianizzazione. Nella Germania di Weimar, il ministro degli Esteri Gustav Stresemann – in carica dall’agosto 1923 fino alla sua morte nell’ottobre 1929 – impostò una politica di protezione delle minoranze tedesche rimaste fuori da Germania e Austria, anche finanziando segretamente società pangermaniste attive con finalità di revisione dei confini stabiliti con i trattati di Versailles e Saint Germain.

La difesa della tedeschità del Sudtirolo – regione vista come il baluardo del mondo germanico a sud, abitata da un’orgogliosa popolazione di montanari decisi a difendere la propria identità etnica – divenne un tema capace di toccare le corde di vasti settori dell’opinione pubblica, non solo conservatrice. A destra, però, vi era un partito, la Nazionalsozialistische Deutsche Arbeiter Partei (Nsdap), che faceva eccezione, evitando cautamente di partecipare alle campagne antitaliane, scatenate nei momenti di massima tensione tra i due Paesi a causa dell’opera fascista di snazionalizzazione. A guidarlo era Hitler, che fin dal 1922 aveva esplicitato la sua posizione al riguardo, destinata ad essere ribadita nel 1926 in un libretto intitolato Die Südtiroler Frage und das Deutsche Bündnisproblem (La questione sudtirolese e il problema delle alleanze della Germania), ripreso poi nella seconda parte del Mein Kampf. Per Hitler, interesse prioritario della Germania era stringere un’alleanza con l’ltalia fascista, anche sacrificando il destino dei poco più di 200.000 sudtirolesi. Ufficialmente, la sua posizione non cambiò negli anni successivi, neppure dopo la presa del potere e nonostante i malumori tra le stesse file naziste, specie in Austria. Molti, però, interpretavano le parole di Hitler come puramente tattiche, volte a tranquillizzare il duce e a favorire l’avvicinamento dei due Paesi, senza escludere che in un futuro caratterizzato da un nuovo e imprevedibile contesto, la Germania avrebbe potuto mettere le mani sui territori a sud del Brennero.

L’ascesa di Hitler al potere nel gennaio 1933 ebbe effetti dirompenti in Alto Adige, dove le autorità italiane cominciarono a registrare sempre più frequentemente manifestazioni di entusiasmo pangermanista, con l’esibizione di svastiche, scritte irredentiste e talvolta anche con aperte provocazioni verso le autorità statali. Per molti sudtirolesi, il nuovo protagonismo della Germania rendeva realistica la prospettiva di un ritorno del Sudtirolo nel mondo di lingua tedesca. Se le vecchie generazioni, cresciute ancora sotto l’Impero asburgico, restavano legate sentimentalmente all’Austria, i giovani guardavano ormai soprattutto alla Germania e alla sua sfida sempre più aperta alle decisioni subite con la pace di Versailles. Ciò, nonostante le rassicurazioni di Hitler, che esplicitamente ribadiva la rinuncia tedesca a qualsiasi rivendicazione sul Sudtirolo, in nome dell’amicizia e dell’alleanza con l’Italia. A esaltare le speranze di molti sudtirolesi contribuì fortemente il plebiscito della Saar del gennaio 1935, largamente favorevole al ricongiungimento al Reich di quella regione separata dalla Germania alla fine della prima guerra mondiale. «Die Saar ist frei, jetzt sind wir an der Reih» (La Saar è libera, ora è il nostro turno) divenne uno degli slogan più ricorrenti a sud del Brennero. Si moltiplicarono ulteriormente le manifestazioni di stampo pangermanista, cui seguirono azioni di violenza fascista, in una spirale ben poco favorevole ai propositi d’italianizzazione.

Nel marzo 1938, Mussolini dovette fare buon viso a cattivo gioco accettando l’Anschluss, quattro anni dopo la sua rabbiosa reazione al tentato putsch nazista in Austria che aveva condotto all’assassinio del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, fidato alleato dell’Italia. Nel 1934, per bloccare le aspirazioni naziste, Mussolini non aveva esitato a inviare quattro divisioni del regio esercito al confine del Brennero. Ora, il dittatore italiano prendeva atto dello squilibrio di forze tra Italia e Germania e abbandonava uno dei cardini della politica estera nazionale dopo il 1918, ovvero la strenua difesa dell’indipendenza austriaca in funzione antigermanica. Era una delle conseguenze dell’isolamento internazionale italiano dopo l’impresa etiopica e le sanzioni; tra i grandi d’Europa, al fianco dell’Italia era rimasta la sola Germania e la prospettiva di un accordo diveniva inevitabile, anche al prezzo di abbandonare l’Austria. Ora, però, il Reich giungeva fino al Brennero, rendendo ancora più preoccupante la situazione in Alto Adige, con l’entusiasmo degli attivisti nazisti completamente fuori controllo. La situazione era potenzialmente esplosiva e rischiava di mettere a dura prova la veloce marcia di avvicinamento tra Italia e Germania.

 

GLI ACCORDI DEL 1939

È in questo contesto che vanno letti gli accordi italo-tedeschi del 1939, decisi a Berlino il 23 giugno 1939 e poi via via perfezionati fino alla loro formalizzazione e firma il 21 ottobre dello stesso anno. Vanno intesi come complemento del Patto d’Acciaio firmato a maggio dai due dittatori, che richiedeva l’eliminazione di un elemento di tensione che avrebbe potuto compromettere l’alleanza, vale a dire l’acceso irredentismo antitaliano in Sudtirolo, potentemente alimentato dall’ascesa della Germania di Hitler. Obbligando la popolazione di lingua tedesca a una definitiva scelta di appartenenza per la Germania o per l’Italia, l’accordo avrebbe dovuto eliminare per il futuro qualsiasi contenzioso intorno a una regione che segnava il punto di contatto tra i due alleati ora confinanti.

Gli accordi prevedevano che tutti i Volksdeutsche, ovvero i cittadini italiani di “lingua e razza” tedesca, decidessero, entro il 31 dicembre 1939, se divenire cittadini germanici ed emigrare nel Reich o rimanere italiani. Una scelta apparentemente libera, intorno alla quale, però, si scatenò presto un’aggressiva opera di propaganda da parte nazista. L’intesa definiva il territorio al cui interno si sarebbero tenute le opzioni: la provincia di Bolzano; i comuni della cosiddetta zona mistilingue della provincia di Trento (oggi parte della provincia di Bolzano); l’Ampezzano già territorio asburgico, attribuito alla provincia di Belluno e infine la piccola Val Canale, presso Tarvisio, in provincia di Udine, altra zona in cui viveva una comunità di lingua tedesca. Erano dunque ammessi all’opzione anche gli abitanti delle valli ladine, il che provocò grande irritazione nel nazionalista Ettore Tolomei, che per decenni ne aveva sostenuto la piena italianità.

L’accordo stabiliva anche il rimpatrio obbligatorio dei circa 10.000 cittadini del Reich residenti in Alto Adige, in larga maggioranza ex cittadini austriaci divenuti germanici dopo l’Anschluss. Le autorità italiane li ritenevano, erroneamente, i più attivi propagandisti antitaliani e pensavano che il loro allontanamento avrebbe reso il clima in Alto Adige assai più disteso, sottovalutando il radicamento del movimento nazionalsocialista tra la popolazione locale.

I beni degli optanti sarebbero stati valutati da commissioni paritetiche italo-germaniche e l’Italia avrebbe dovuto indennizzare i partenti applicando a loro favore un cambio più vantaggioso di 4,5 lire per marco, al posto delle ufficiali 7,6. Ciò almeno fino al raggiungimento della somma di un miliardo, che l’Italia riteneva essere sufficiente per le poche decine di migliaia di persone che immaginava avrebbero scelto di partire per la Germania.

Venuti a conoscenza del contenuto degli accordi, inizialmente i nazisti sudtirolesi – raccolti nel Völkischer Kampfring Südtirols (VKS, Circolo popolare combattente del Sudtirolo) – espressero tutta la loro contrarietà alla prospettiva dell’abbandono della propria terra, ma molto presto si allinearono agli ordini superiori, divenendo i più attivi propagandisti per l’opzione. Nei pochi mesi compresi tra la firma degli accordi e il termine fissato al 31 dicembre 1939, scesero in campo tre fazioni: le autorità germaniche con gli attivisti del VKS, che puntavano a un plebiscito a favore della partenza; le autorità italiane, interessate alla rapida partenza dei cittadini germanici e a una parte limitata della popolazione locale; e un piccolo gruppo di sudtirolesi, i cosiddetti Dableiber (i restanti), capitanati dalla vecchia classe dirigente liberal-nazionale e da circoli del mondo cattolico, intenzionati a convincere la popolazione a non abbandonare la propria regione. Il risultato fu una profonda e duratura lacerazione della società locale.

L’azione più spregiudicata e più efficace, fatta di promesse, lusinghe e minacce, fu senza dubbio quella dei nazisti tedeschi e sudtirolesi. Per la Germania, l’azione in Sudtirolo rientrava nella politica più ampia dell’Heim ins Reich, ovvero il progetto di “riportare a casa”, dentro i confini della Grande Germania, tutti i Volksdeutsche che vivevano negli stati vicini. Attraverso accordi bilaterali con diversi Paesi, la Germania acquisì circa mezzo milione di “tedeschi etnici”, che rappresentarono un serbatoio prezioso di manodopera, di giovani in età di leva da utilizzarsi sui diversi fronti e di materiale umano per la colonizzazione di territori conquistati nell’est europeo. Nel caso dei sudtirolesi, poi, il favorevole accordo sulla liquidazione dei loro beni avrebbe garantito l’acquisizione di preziosa valuta.

Ai nazisti riuscì di far passare la scelta tra partire e restare come una dichiarazione di appartenenza al popolo tedesco o a quello italiano. Dai sudtirolesi si pretendeva un plebiscito a favore del Reich, a dimostrazione del carattere tedesco del territorio e della sua popolazione; scegliere di restare significava tradire il proprio popolo. La propaganda germanica insisteva sulla necessità che tutti scegliessero la scheda rossa, quella a favore dell’emigrazione nel Reich, poiché si diceva che un voto totalitario in tale direzione avrebbe sicuramente condotto a un nuovo accordo tra Hitler e Mussolini, con il passaggio del Sudtirolo alla Germania. «Deutsch wahlen, aber nicht gehen» (Votare tedesco, ma non partire) divenne uno degli slogan più diffusi e rassicuranti in Sudtirolo. Una simile prospettiva, del tutto fantasiosa, fece sì che in molti non colsero appieno le conseguenze dell’opzione per la Germania, mostrandosi inconsapevoli che essa avrebbe comportato l’abbandono delle proprie case. Contemporaneamente, e in maniera per la verità non poco contraddittoria, la propaganda nazista prometteva che i sudtirolesi sarebbero stati trasferiti in una zona di insediamento unitario, in modo da non comprometterne l’unità. Nel 1939 si ipotizzò come destinazione la regione dei Beschidi, nella Polonia meridionale, poi l’Alsazia Lorena, quindi la Borgogna e infine, nel 1943, la Crimea. Nessuna di queste ipotesi si realizzò e la maggior parte dei partenti sarebbe finita nei territori già austriaci. Le promesse dei nazisti, ai limiti dell’incredibile, arrivarono a prefigurare la fedele ricostituzione dei paesi del Sudtirolo nell’immaginario spazio unitario di insediamento, dove le comunità di origine si sarebbero ritrovate intatte, in un ambiente del tutto identico a quello che si accingevano ad abbandonare. Un altro argomento usato spregiudicatamente dalla propaganda nazista sosteneva che nei piani del fascismo si prevedeva che gli optanti per l’Italia fossero trasferiti in massa in Sicilia, dove recentemente il regime aveva condotto opere di bonifica e di appoderamento. Scegliere di restare, dunque, non avrebbe significato poter rimanere nelle proprie case e continuare a coltivare la propria terra, ma subire una vera e propria deportazione forzata in Sicilia o addirittura nei domini africani.

A tutto ciò si aggiunsero minacce e veri e propri atti di violenza ai danni dei Dableiber, in primo luogo di coloro impegnati attivamente in opera di propaganda. Questi ebbero tutt’altro che vita facile di fronte alla pressione capillare, organizzata e violenta dei nazisti. Oltre a ciò, avevano ben poco da offrire rispetto alle promesse mirabolanti della controparte. Dopo quasi vent’anni di oppressione fascista, la scelta per lo status quo e per l’Italia appariva assai meno attraente di quella a favore della conservazione dell’identità tedesca e di un futuro nella Grossdeutschland che veniva presentato come radioso. Un argomento usato dagli ambienti cattolici contrari alla scelta per il Reich era il carattere pagano e antireligioso del regime nazista. Ma il basso clero, in larga parte contrario all’opzione per la Germania, fu ostacolato dal vescovo di Bressanone Johannes Geisler e soprattutto dal suo vicario generale Alois Pompanin, apertamente favorevole al nazismo.

Il terzo attore era rappresentato dalle istituzioni italiane, che però a lungo rimasero spettatrici passive della disfida in atto. Le finalità del regime fascista erano ben diverse da quelle germaniche; non si voleva un’emigrazione di massa, ma solo dei cittadini del Reich e di qualche migliaio di “teste calde”, dei più apertamente antitaliani, di cui Roma si sarebbe disfatta ben volentieri. L’idea era che la maggior parte della popolazione, specie quella contadina, legata alla propria terra e anche ai propri concreti interessi economici, mai avrebbe scelto di partire abbandonando tutto, per un destino ignoto. Un’analisi che si sarebbe rivelata drammaticamente sbagliata e che si fondava in larga parte sull’idea che le opzioni sarebbero state un’espressione di volontà del tutto libera, priva di condizionamenti e pressioni esterne, nella piena inconsapevolezza delle intenzioni delle autorità naziste e della loro capacità d’intervento. Solo in una fase molto avanzata, una volta resosi conto che la maggior parte della popolazione si stava orientando a favore dell’opzione per il Reich, il prefetto Giuseppe Mastromattei intervenne con dichiarazioni pubbliche, assicurando che chi avrebbe scelto l’Italia sarebbe rimasto tranquillamente nelle proprie case e che nessuno ne progettava il trasferimento in altre regioni italiane. In un discorso tenuto a Bressanone il 5 novembre 1939, Mastromattei cercò di smentire esplicitamente la “leggenda siciliana” con le seguenti parole:

Chi rimane potrà continuare tranquillamente in questa provincia il suo lavoro e le sue occupazioni abituali con gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri cittadini del Regno. So che a questo proposito è in atto una propaganda contraria molto forte. […] Camerati, cittadini di Bressanone, in nome di Dio, per voi e per i vostri figli decidete secondo la vostra coscienza; siete voi gli arbitri del destino della vostra famiglia e di quello dei vostri figli. Faccia Iddio che nessuno dopo il 31 dicembre di quest’anno abbia a pentirsi della propria decisione[1].

Ma era una rassicurazione troppo tardiva, proveniente da una figura istituzionale nella quale la popolazione locale non riponeva alcuna fiducia.

Da parte italiana, poi, non tutti la pensavano allo stesso modo e ben presto si manifestarono divergenze sul senso da dare all’accordo con la Germania. Se per il prefetto e altre autorità l’obiettivo era un’emigrazione limitata e che toccasse sono limitatamente il mondo delle campagne, per figure come il nazionalista Ettore Tolomei (per la verità ormai ai margini della politica del regime) o l’ambasciatore a Berlino Bernardo Attolico, l’Italia avrebbe dovuto approfittare dell’occasione per sbarazzarsi di tutti o quasi i sudtirolesi, per risolvere una volta per tutte il problema della riottosa provincia di confine. Era senz’altro una posizione minoritaria tra le autorità italiane, dove era chiaro che una partenza totalitaria della popolazione avrebbe determinato costi economici insostenibili, per la necessità di indennizzare con diversi miliardi di lire tutti i partenti, per la difficoltà di sostituirli adeguatamente in tempi rapidi e per la conseguente crisi del fiorente settore agricolo locale.

Ciò non toglie che da parte italiana arrivarono messaggi contraddittori, che non aiutarono la già difficile posizione dei Dableiber. Contro le parole rassicuranti di Mastromattei che abbiamo letto sopra, si scagliava Tolomei:

Usiamo di proposito l’espressione tedesca, la Rückwanderung, [“emigrazione di ritorno”, come era definita l’opzione per la Germania da parte dei nazisti. NdA] che non potrebbe essere più felice, più chiara, più sincera, più espressiva, più definitiva […] Sembra impossibile che di fronte a così alto concetto, storico e geografico, maturato nell’animo del Cancelliere [Hitler. NdA] e nella coscienza del suo popolo, si trovino fra noi dei piccoli uomini che ritengano necessario e avveduto il diminuire, il restringere, il mascherare, il nascondere[2].

 

Fonte: novecento.org