Per decenni Mosca e Roma sono state in ottimi rapporti. Non a caso l’Italia era definita il paese più vicino alla Russia di tutto l’occidente. Al momento dell’invasione dell’Ucraina, quasi il 40 per cento del gas importato dall’Italia arrivava dalla Russia. Nei Paesi Bassi era il 15 per cento.
All’inizio del 2022 l’ex presidente del consiglio Mario Draghi ha diminuito la dipendenza italiana dal gas russo. E l’attuale governo, guidato da Giorgia Meloni, ha proseguito sulla stessa linea, grazie al gas che arriva dall’Algeria, dalla Norvegia e dall’Azerbaigian e a quello naturale liquefatto (Gnl) dagli Stati Uniti. Alla fine del 2023 l’Italia avrà rimpiazzato il 75 per cento del gas proveniente dalla Russia, e entro il 2024 Roma conta di chiudere del tutto i rubinetti con Mosca.
Come Draghi, anche Meloni è un’accanita sostenitrice delle sanzioni. Con l’inizio della guerra l’Unione europea ha vietato quasi la metà delle sue esportazioni verso la Russia, per un valore di almeno 43,9 miliardi di euro.
In Italia le sanzioni stabilite nel 2014 in seguito all’annessione della Crimea da parte della Russia colpirono soprattutto il settore alimentare. All’epoca politici come Silvio Berlusconi, amico intimo del presidente Vladimir Putin, e il leader della Lega Matteo Salvini, ammiratore del capo del Cremlino, protestarono molto. Ora che entrambi fanno parte della coalizione che appoggia il governo Meloni, si lamentano meno. Le sanzioni colpiscono le categorie di lusso del made in Italy, come la moda e il design, dato che vietano di esportare in Russia tutti i prodotti che hanno un valore di almeno 300 euro.
Una borsa da ventimila euro
Sul piano macroeconomico l’economia italiana sembra reggere bene nonostante queste misure. La Commissione europea prevede che nel 2023 il pil crescerà dell’1,2 per cento.
“Per la singola azienda, però, è davvero difficile”, dice Valentino Fenni, presidente dei calzaturifici della provincia di Fermo, uno dei principali centri di produzione di scarpe in Europa. “Si tratta spesso di imprese di medie o piccole dimensioni, in gran parte a conduzione familiare”. Con le sanzioni hanno perso un mercato importante.
L’azienda Virgili non è toccata dal divieto di esportazione perché le sue scarpe costano meno di 300 euro, ma è comunque in difficoltà: “I clienti russi hanno problemi di pagamento cronici”, spiega l’imprenditrice. Le principali banche russe sono state subito escluse dal sistema di pagamento internazionale Swift, ma anche avere rapporti con gli istituti non colpiti dalle sanzioni è complicato. Per andare sul sicuro, alcuni sistemi di pagamento evitano tutte le banche russe.
Anche Paolo Amato, 68 anni, di Milano è stato colpito dalle sanzioni. La sua azienda, la Leu Locati, è un’impresa a conduzione familiare e da sette generazioni produce borse di lusso fatte a mano. Tra i clienti c’è la famiglia reale britannica. Una borsa in negozio può costare anche ventimila euro. “Solo per le ore di lavoro del personale spendo più di 300 euro a borsa”, spiega Amato. Quando è scoppiata la guerra, un suo cliente russo aveva un conto aperto di 35mila euro. A marzo ha cercato di saldarlo, ma ad Amato i soldi non sono mai arrivati e al cliente sono tornati indietro solo a settembre. “Per tutto quel tempo i soldi sono rimasti bloccati presso la Commerzbank tedesca”, sospira l’imprenditore.
Nel 2022 le esportazioni di prodotti italiani in Russia e Ucraina hanno subìto un duro colpo: quelle di vestiti sono diminuite quasi del 26 per cento in Russia, e del 53 per cento in Ucraina. Parallelamente, tra marzo e dicembre, l’esportazione di scarpe in Russia si è ridotta del 25 per cento. In Ucraina il calo è stato del 65 per cento. “A causa del divieto di esportazione ho perso tra 40 e i 50mila euro all’anno”, calcola Amato.
Virgili ha compensato la perdita producendo scarpe per il marchio francese Sartore, per quello italiano Iceberg e per una nota casa di moda internazionale. Inoltre l’azienda si è proposta sul mercato dell’Estremo oriente. “Così, però, perdi parte del contatto diretto con il mercato e con la distribuzione del tuo marchio”, afferma Virgili.
È proprio per questo che Amato si rifiuta di lavorare per marchi più grandi. Se la caverà, ma ritiene che il governo italiano avrebbe dovuto risarcirlo per la perdita causata dalle sanzioni, che in realtà avrebbero dovuto colpire solo Mosca. “Non ho potuto incassare quei 35mila euro che facevano parte di un ordine fatto prima del conflitto. Il governo avrebbe potuto almeno risarcire le ore di lavoro del personale”. Alla fine è riuscito a vendere una parte delle borse a dei negozi in Kazakistan e Kirghizistan. Con transazioni legali, si affretta a precisare. Dice di non sapere assolutamente se poi le borse siano comunque finite in Russia.
“Il commercio con la Russia attraverso espedienti più o meno legali è un dato di fatto, anche nel settore degli articoli di lusso. Questo non significa che l’azienda in occidente ne sia al corrente”, dice Eleonora Tafuro Ambrosetti, che si occupa di Russia presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), a Milano. Secondo lei, per esempio, i pezzi di ricambio per i mezzi di trasporto vengono fatti arrivare in Russia usando aziende in Turchia o in Kazakistan.
Per andare sul sicuro, alcuni sistemi di pagamento evitano tutte le banche russe
Soluzione intermedia
È evidente: per quanto le autorità italiane desiderino spezzare i legami economici con Mosca, le aziende non sono d’accordo. Nonostante le sanzioni e le difficoltà che derivano dalla guerra, solo un’impresa italiana su dieci nel 2022 ha lasciato la Russia. Una è l’Iveco, l’azienda torinese che produce camion e autobus. Molti altri grandi marchi italiani sono rimasti, come Benetton, Diesel, Boggi e la banca Uni-Credit, anche se da alcuni mesi sono stati inseriti, insieme a quelli di altre aziende straniere, in un elenco dell’università statunitense Yale, che vuole spingere le aziende ad abbandonare le loro attività in Russia. Finire in una lista del genere vuol dire essere esposti a molte critiche, anche se si opera nel rispetto delle sanzioni.
Eppure un recente rapporto dell’università Sapienza di Roma mostra che andare via non è facile. Il governo italiano non risarcisce gli imprenditori che lasciano la Russia. Quelli che decidono di farlo devono svendere le loro attività a prezzi molto bassi. E un futuro ritorno in Russia rischia di essere complicato.
Per questo molti imprenditori scelgono una soluzione intermedia: continuare gli affari in corso e posticipare i nuovi investimenti. “Le aziende che se lo possono permettere o che attribuiscono molto valore alla loro immagine pubblica se ne sono andate”, spiega Tafuro Ambrosetti. “Le aziende medie e piccole, invece, spesso non hanno molte alternative”.
Monica Virgili non ha mai pensato alla possibilità di rompere il legame con i suoi contatti commerciali russi: “Come si fa a considerare nemici dei clienti fedeli con cui lavori da anni, per una questione di politica internazionale?”. ◆ oa