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Harriet Beecher-Stowe

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Litchfield (Connecticut) 1811 – Mandarin (Florida) 1896

Di Luciano Luciani

 

Strano destino quello toccato ad Harriet Beecher-Stowe e al suo romanzo più famoso, La capanna dello zio Tom: poco più di un secolo e mezzo fa godettero di un’immensa popolarità, oggi, invece, quel libro e la sua autrice sono dimenticati dai lettori e irrisi dai critici. Addirittura la cultura afro-americana ha assunto il protagonista di quelle pagine come la figura emblematica del nero integrato e imbelle, incapace di concepire e praticare qualsiasi progetto di effettiva liberazione.

Harriet Beecher-Stowe nacque il 14 giugno 1811 a Litchfield nel Connecticut. Suo padre Lyman era un pastore della Chiesa Congregazionalista: un calvinista severo di convinzioni antischiaviste. Tutto preso dalle cure del suo ufficio, Lyman non trovava il tempo per dedicarsi all’educazione dei figli e così, dopo due anni di vedovanza, tornò a sposarsi: fortunatamente la giovane matrigna si rivelò un’ottima madre per Harriet, dimostrandosi capace dell’affetto richiesto dalla grande sensibilità della bambina.

Delicata e impressionabile, Harriet trovò nella lettura un formidabile moltiplicatore alle proprie fantasie. Leggeva di tutto: testi religiosi, biografie, racconti storici, ma le erano vietati i romanzi: gli unici consentiti dall’intransigente genitore erano quelli storici di Walter Scott, mentre la futura autrice di best seller si entusiasmava di nascosto alla lettura delle Mille e una notte, scoperto per caso in una soffitta.

Frequentò le scuole di Litchfield, distinguendosi per i rapidi progressi. A soli dodici anni ottenne un riconoscimento pubblico per aver scritto una relazione su un tema di grande precocità intellettuale: Si possono ricavare dalla natura le prove dell’immortalità dell’anima?

Nel 1832 Lyman Beecher fu chiamato a Cincinnati per dirigere un seminario e la famiglia lo seguì. In questa città di frontiera Harriet realizzò le sue prime esperienze giornalistiche e letterarie collaborando al «Western Monthly Magazine» e al «Mayflower».

Nel 1836 Harriet sposò Calvin Ellis Stowe che insegnava letteratura biblica al Lane Theological Seminary, fondato e diretto da Lyman Beecher. Il marito era senz’altro un uomo colto, ma a giudicare da quanto Harriet scriveva a un’amica solo poche ore prima delle nozze, non può proprio dirsi che si trattasse di un matrimonio d’amore: “Dapprima provai un’apprensione indicibile, e la settimana scorsa non sono mai riuscita a chiudere occhio; non sapevo come avrei subìto questa enorme trasformazione della mia vita. Ora che il momento è giunto, non provo più nulla”. Si può supporre che Harriet acconsentisse a quel vincolo per non pesare più sulla propria famiglia, numerosa e continuamente alle prese con non facili problemi di natura economica.

In tali difficili frangenti Harriet dette prova di grandi capacità umane e, mentre la famiglia cresceva fino ad annoverare ben sette figli, seppe anche compiere quelle scelte che decideranno della sua vocazione di scrittrice.
Da tempo era alla ricerca di un modo per accrescere le magre rendite familiari e spesso aveva pensato di utilizzare a questo scopo quella attitudine alla scrittura che tutti le riconoscevano sin dai tempi della scuola. Così, spinta, dalla necessità e su sollecitazione di alcuni editori, cominciò a scrivere racconti, testi di economia domestica e raccolte di canti del New England che ebbero una buona accoglienza.

Questa fase della vita di Harriet Beecher-Stowe si chiuse tragicamente nel 1849 a causa della morte di un figlio avvenuta nel corso di un’epidemia di colera. Un evento doloroso che venne compensato dal miglioramento della situazione economica della famiglia: infatti, nel 1850 il prof. Stowe fu chiamato a ricoprire la cattedra di teologia presso il Bowdoin College a Brunswick nel Maine.

La raggiunta tranquillità permise a Harriet una più piena partecipazione alla vita politico-culturale della società americana del suo tempo, divisa sulla questione della schiavitù tra abolizionisti e anti-abolizionisti. Proprio alla fine del 1850 il problema si era riacceso a causa della famigerata Fugitive Slaw Law: nessuno schiavo fuggiasco poteva trovare asilo negli Stati dell’Unione e tutti i cittadini americani erano obbligati a restituire al proprietario ogni schiavo nero fuggito al nord. Per rendere più malleabili gli eventuali scrupoli morali degli ufficiali pubblici era previsto un premio in denaro. Soprattutto negli Stati settentrionali, però, erano in molti a fare obiezione, rifiutandosi non solo di catturare gli schiavi fuggiaschi, ma aiutandoli a raggiungere la libertà in Canada, appoggiandosi alla underground railroad, la “ferrovia sotterranea”, un’organizzazione semiclandestina che favoriva concretamente gli schiavi in fuga.

La famiglia condivideva e sosteneva le sue idee: Lyman Beecher era un “conduttore” della underground railroad e aveva già messo a repentaglio la propria vita per favorire la fuga di una donna di colore. Poco tempo dopo Harriet riceveva una lettera da una sua cognata: “Se avessi una penna eloquente come la tua, scriverei un libro per mostrare alla nazione quale abominio sia la schiavitù”. Raccontano che a questa lettura la giovane donna si alzò in piedi ed esclamò con accento ispirato: “Sì! Se Dio mi dà vita, scriverò un libro”.

Si mise immediatamente al lavoro, mettendo insieme le informazioni necessarie dai documenti, dalla stampa del tempo e dalle testimonianze orali, inviando ai suoi corrispondenti negli Stati del sud questionari con cui raccolse in breve tempo tutte le notizie occorrenti.

La capanna dello zio Tom (Uncle Tom’s Cabin) è il primo volume in cui la scrittrice abbia fatto insieme opera di romanziere e polemista. Il romanzo uscì a puntate, tra il giugno 1851 e l’aprile 1852 sulle pagine della rivista abolizionista «National Era», che si pubblicava a Washington e furono più di tremila le copie vendute il primo giorno in cui La capanna dello zio Tom apparve nelle librerie in forma di libro. Subito si arrivò a esaurire le diecimila copie previste per la prima edizione e il 1 aprile si cominciava già a stamparne la seconda. I torchi tipografici lavorarono ininterrottamente e alla fine dell’anno le copie stampate erano oltre trecento mila. Il successo del libro non si arrestò agli Stati Uniti, ma valicò l’Atlantico: nel 1852 erano quaranta le edizioni pubblicate in vari formati in Inghilterra e traduzioni apparvero in Francia e Prussia. Ancora pochi mesi e il romanzo veniva tradotto in oltre venti lingue tra cui l’araba, l’armena, la cinese, la malese. Intanto, all’insaputa dell’autrice, dal romanzo veniva tratta una piece teatrale rappresentata con successo negli Stati Uniti e nelle principali città d’Europa. Non si era mai visto un tale evento editoriale, letterario, culturale e il nome di Harriet Beecher-Stowe era ormai celebre in tutto il mondo.

Intanto l’agitazione anti-schiavista suscitata e tenuta desta da Harriet e dai suoi compagni di fede stava per dare i suoi frutti: la guerra tra gli Stati del nord e quelli del sud scoppiò nel 1861 per durare ben cinque anni. La Stowe accolse con soddisfazione la dichiarazione di guerra, un conflitto che ai suoi occhi assumeva i connotati di una lotta tra Bene e Male.

Al termine del conflitto Abramo Lincoln volle conoscerla e la definì “the little lady who caused this big war“. Intensa, nel frattempo, al ritmo di un libro l’anno, la sua produzione letteraria: nel 1862 pubblicò The Pearl of Orr’s Island, nel 1869 Oldtown Folks, nel 1878 Poganuc People, storie legate all’infanzia rivissuta con acuta partecipazione.

Harriet non rimase indifferente alle grandi miserie materiali e morali che la guerra civile aveva lasciato dietro di sé. Decise, allora, di dedicarsi a educare quel popolo nero al cui affrancamento aveva così potentemente contribuito. A questo scopo acquistò a Mandarin, in Florida, una magnifica tenuta e i momenti più sereni della sua vita furono quelli trascorsi sotto la veranda della sua villa impegnata a rispondere alle innumerevoli lettere che continuavano ad arrivarle da ogni parte del mondo.

In occasione del suo settantesimo compleanno, i suoi editori organizzarono una grande festa: quel giorno più di duecento tra scrittori e giornalisti americani le indirizzarono un saluto augurale espresso in termini entusiastici. Ma ad Harriet queste manifestazioni di stima non davano – sono le sue parole – tanta gioia quanto il sorriso di felicità di un negro liberato finalmente nelle condizioni di poter affermare “Ho venti capi di bestiame, quattro cavalli, quaranta polli e dieci figli. E tutto ciò e mio, proprio mio!”.

Morì a Mandarin il 1 luglio 1896.