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Scoprire Casorati nella “Villa dei capolavori”, nel parmense più profondo

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Scoprire Casorati nella “Villa dei capolavori”, nel parmense più profondo

Camillo Langone

Odio le mostre anche perché odio i visitatori delle mostre (con quella brutta abitudine di mettersi davanti ai quadri che mi interessano) ma la Fondazione Magnani-rocca fa orario continuato, se arrivi subito dopo pranzo c’è pochissima gente. Da Parma a Mamiano di Traversetolo sono 16 chilometri in direzione collina, sempre dritto fin quando a un trivio bisogna girare a sinistra (non mi piace girare a sinistra, prestare il fianco alle macchine in arrivo, e mi piacerebbe ancor meno se fosse notte) per infilarsi in uno stradello proprio di campagna, fiancheggiato da alberi non molto alti e spettinati, semiselvatici. Forse le alloctone, pertanto da me odiate robinie? Per verificarlo dovrei fermarmi ma devo invece affrettarmi, non vorrei che le masse avessero già finito di ingozzarsi nei mangifici del centro città e stessero per frapporsi fra me e i quadri di Casorati. Accelero. Poco dopo appare il villone che fu di Luigi Magnani, leggendario collezionista di Morandi e non solo, e davvero non ricordo se tanti anni fa scoprii il personaggio ascoltando un marchese parmigiano o leggendo Arbasino in “Fratelli d’italia”: “Chi di voi è già stato da Magnani, nella villa?”. Nei primi Anni Sessanta il raffinatissimo scrittore lombardo compilò un catalogo valido ancora oggi: “Tutti i Morandi, anche commissionati, il Rubens di Mantova, il Dürer di Bagnacavallo, la gran tazza di porfido dello zar Alessandro per Napoleone, montata da Thomire… E questo immenso Goya murato nel salone del fortepiano di Beethoven a palazzo Palffy…”.
La chiamano infatti “Villa dei Capolavori”, qui in mezzo ai campi ha raccolto i suoi preziosi acquisti Magnani che era un gran borghese: il padre aveva fatto i soldi, molti soldi, col formaggio, la madre era di nobile famiglia ligure. Qui Felice Casorati sarà, fino al 2 luglio, perfettamente a suo agio. Perché era un pittore borghese, figlio di un ufficiale quando gli ufficiali erano qualcosa, un artista che non visse da artista ma sempre da signore (niente bohème, niente soffitte, nessun maledettismo nemmeno giovanile nella biografia), che ebbe una clientela borghese, un successo borghese, e per giunta suonava il pianoforte, strumento borghese per eccellenza. Ha suonato il piano prima di prendere in mano un pennello e ha continuato a farlo per tutta la vita. Anche l’arte dei suoni lo avvicina a Magnani, oltre che collezionista musicologo e musicista (ecco il motivo dei numerosi e prestigiosi strumenti disseminati negli ambienti della villa).
Io però alla ragazza della Fondazione chiedo subito dove sono i Morandi. Mi dispiace, sarò uno screanzato, irrispettoso verso il protagonista della mostra, ma voglio innanzitutto rivedere quello che forse è il più bel quadro metafisico di Morandi se non il più bel quadro metafisico in assoluto (De Chirico, teorico ottimo, era pittore così così): “Natura morta metafisica”. Niente, i Morandi non ci sono siccome prestati per una mostra, se non ho capito male a Londra (è scosso da un turbine di mostre il sistema museale: una prece per i poveri quadri sballottati). Meglio per Casorati, mi concentrerò su di lui. Procedendo verso le sue sale trovo il fortepiano di Beethoven e dunque dal tempo di Arbasino, che è il tempo di Magnani vivo, l’allestimento è cambiato perché non siamo nel salone del Goya ma in una stanza di passaggio, vicino al solito De Pisis (non deve stupire che De Pisis abbia goduto di così grande reputazione se oggi godono di grande reputazione Baselitz e Pistoletto: ogni epoca ha le sue fame usurpate). Nella stanza successiva c’è un bel Tiziano e quasi di fronte la Madonna di Bagnacavallo di Albrecht Dürer, che secondo me preferirebbe starsene in una chiesa di Bagnacavallo. Sospetto che la museificazione ossia la profanazione dell’arte sacra turbi soltanto me, e allora ne scriverò un’altra volta.
Scavalcando il Casorati iniziale mi precipito dalle “Signorine”, quadrone del 1912 solitamente a Cà Pesaro, Venezia, località più affollata di Traversetolo. Dunque gli amici misantropi vengano ad ammirare qui la singolare tela simbolista, affollata di profumi, balocchi, specchi e boccetti, perfino una tacchina, e cartigli coi nomi delle quattro donne (dimmi che donna preferisci e ti dirò chi sei: io preferisco Bianca, quella nuda). Nel 1920 spuntano “Le uova sul cassettone”, soggetto che si moltiplicherà stucchevolmente mentre qui è un’epifania. Del ’21 “Le due sorelle”, impressionanti creature di cera. Del ’22 “Silvana Cenni”, quasi una tarsìa, nell’anno magico di “Via Toscanella” (Rosai) e di “Maschere” (Malerba). Del ’23 “Meriggio”, ostentante glutei formosi, che proviene dal Museo Revoltella di Trieste (adesso tutti hanno scoperto Trieste, ma qualcuno ha scoperto il Museo Revoltella di Trieste?). E’ il precedente di “Dopo l’orgia” di Cagnaccio di San Pietro (con natiche invece ossute), il quadro più potente dei sovrabbondanti anni Venti dell’arte. Del ’24 “Concerto”, ancora corpi tondi, proprietà della Rai di Torino (Casorati era torinese come torinese era la Rai, prima che Roma se ne impadronisse). Infine, del ’25, il supremo “Conversazione platonica”, vertigine di enigmi a cui vorrei abbinare una poesia di Cardarelli (mentre i primi quadri fanno pensare ovviamente a Gozzano). Perché ho scritto “infine”? Perché la mostra ci mostra come il Casorati maggiore si concluda qui, superati di poco i quarant’anni: fu uno dei primi pittori della prima metà degli anni Venti. Dopo cominciano ripetizione e decadenza (le “Mele verdi” del ’32 allegano i denti). “Susanna”, ragazzona popputa al centro di una nuova “Conversazione” che anticipa Guttuso, merita ancora uno sguardo e poi si può uscire ad ammirare i pavoni del parco: essendo com’è giusto vanitosissimi fanno la ruota ogni volta che cominci a fotografarli.
Per allietare il dopomostra di solito allego qualche indirizzo enogastronomico, solo che stavolta la sede museale è in una landa parmense enogastronomicamente terra terra, e non saprei che indirizzi dare se non il ristorante sardo (ripeto: sardo) ubicato non lontano, fra i campi, nella medesima frazione.

Fonte: Il Foglio