Mondovì 1925 – 1996
La libertà è la facoltà di fare ciò che si deve e non ciò che si vuole.
Ho un figlio grande e un marito, faccio politica, ho i fiori alle finestre e amo ancora la vita.
Lidia Beccaria Rolfi è nata a Mondovì l’8 Aprile del 1925 in una famiglia di contadini, ultima di cinque fratelli. La sua infanzia è trascorsa serena e, come lei stessa ricorda, imbevuta dalla propaganda fascista.
Lidia frequenta le scuole magistrali ed è l’unica della famiglia a proseguire gli studi. Con la promulgazione delle leggi razziali inizia ad avere i primi dubbi: l’insegnante fa strappare le pagine delle antologie scritte da autori ebrei e impone di ricomprare l’Atlante perché uno dei due autori è ebreo. La situazione precipita: l’anno successivo scoppia la guerra. Lidia accoglie con entusiasmo l’ingresso nel conflitto, ma la guerra mostra presto il suo vero volto.
Due dei suoi fratelli vengono inviati sul fronte russo, dal quale tornano miracolosamente illesi. I loro racconti rivelano le sofferenze dei soldati e le atrocità tedesche verso i civili. È il crollo delle illusioni di Lidia. Nel 1943, la portata del disastro militare è ormai chiara. Dopo l’8 settembre inizia la dura repressione tedesca, con la complicità dei fascisti repubblichini.
Nel frattempo, Lidia si diploma e riceve la prima nomina a maestra elementare nel paese di Torrette di Casteldelfino, in Valle Varaita. Lei è ormai cambiata e il rogo di Boves le toglie ogni dubbio: uno dei massacri di civili innocenti compiuto come rappresaglia dall’esercito nazista il 19 settembre 1943 e poi tra il 31 dicembre 1943 e il 3 gennaio 1944 a Boves, in provincia di Cuneo.
A diciotto anni diventa staffetta partigiana nella XV Brigata Garibaldi “Saluzzo”, assumendo il nome di “maestrina Rossana”. Mostra coraggio e determinazione, correndo rischi mortali. Nella sua casa costruisce le bombe a mano che poi nasconde in una cassa sotto il letto.
Quando non è impegnata a scuola, tiene i contatti tra la valle e Saluzzo. I rastrellamenti a tappeto dei nazifascisti iniziano i primi giorni di marzo del 1944. Lidia torna a Mondovì dove rimane una decina di giorni per poi rientrare a Casteldelfino e riprendere il suo lavoro a scuola. La mattina del 13 marzo, in seguito alla delazione di una spia, viene arrestata dalla Guardia Nazionale Repubblicana e condotta a Sampeyre dove, dopo l’interrogatorio, subisce torture per un giorno e una notte, terrorizzata dalle minacce di morte e portata davanti a un plotone di esecuzione. Lidia resiste, subisce i tormenti con coraggio finché viene consegnata alla Gestapo e imprigionata per un breve periodo a Saluzzo per essere poi trasferita alle carceri Nuove di Torino. Saranno due mesi di grandi angosce, senza contatti esterni, in una piccola cella sovraffollata, alla mercé di aguzzini crudeli. L’attesa ha termine quanto le viene comunicato che verrà inviata in Germania “per lavoro”. Viste le condizioni in cui si trova, Lidia accoglie la notizia con sollievo.
Nella notte tra il 25 e il 26 giugno del 1944 viene caricata su un carro bestiame insieme ad altre prigioniere. Il treno viaggia per quattro giorni. Sia lei sia le compagne non riescono a immaginare nulla di peggiore della vita passata nelle carceri, con le ripetute torture e il timore di rappresaglie nei confronti dei familiari. La sera del 30 giugno 1944 il treno si ferma alla stazione di Furstenberg, nel Meckleburgo, a ottanta chilometri da Berlino. La accolgono le SS, viene incolonnata e a piedi percorre i quattro chilometri che la separano dalla destinazione. Un alto muro, un portone, aperto, sormontato da torrette di guardia. Un gran numero di donne in attesa di varcarlo. E Lidia entra, insieme alle sue tredici compagne, nel campo di concentramento di Ravensbruck, l’unico lager nazista per sole donne. Il loro è il primo gruppo di italiane non ebree a essere internate.
L’impatto è terribile e viene raccontato con fredda lucidità nel libro scritto insieme ad Anna Maria Bruzzone: Le donne di Ravensbruck edito da Einaudi.
Prima incredula, Lidia scopre la brutalità nazista, la spietata determinazione nel disumanizzare le prigioniere. Il bisogno primario del cibo porta le persone a lottare fra di loro, i ricordi si affievoliscono, la dignità, l’identità scompaiono, tutto si concentra nella necessità di sopravvivere.
Il degrado fisico è rapido, a diciannove anni mostra un precoce invecchiamento: scompare il ciclo mestruale, appaiono i primi capelli bianchi e il corpo si riempie di piaghe per la mancanza di vitamine. Intorno, un universo di desolazione e morte che la mente fatica a elaborare. Nel libro racconta, con prosa asciutta ed essenziale, la lotta per non soccombere al freddo e alla fame. È una detenuta comune, solo un corpo disponibile per i lavori più massacranti, con le caposquadra che si accaniscono a colpi di bastone.
Nella camerata avviene l’incontro con le deportate francesi, con le quali stringe una forte amicizia che durerà anche dopo la guerra. Le italiane sono guardate con diffidenza dalle altre internate, perché appartengono a una nazione alleata della Germania. L’ostilità cessa in seguito a un piccolo episodio: una di loro intona in francese “Bandiera rossa” e Lidia, istintivamente, si unisce al canto in italiano. Le partigiane francesi cambiano atteggiamento e la aiutano a entrare nella fabbrica della Siemens, che si trova ai margini del lager e dove le condizioni di vita sono appena migliori, ma sufficienti a non soccombere. Lidia riesce a trovare i mezzi per scrivere, ruba della carta in fabbrica e recupera, grazie ad alcune compagne, un album da disegno e un mozzicone di matita. A rischio di severe punizioni, inizia ad annotare quello che vede, esercita la mente al ricordo, elabora la nostalgia di casa e il desiderio di scrivere e ricordare quello che sta vivendo per tornare e raccontarlo.
Malgrado sia debilitata, pesa trentadue chili, resiste all’ultima fatica quando le SS, di fronte all’avanzata russa, costringono le prigioniere a marciare nel freddo, sotto la pioggia battente e con pochissimo cibo. Sfinita, perde i contatti con le altre e incontra fortunosamente un gruppo di internati militari italiani che la assistono. Il 30 aprile 1945 i russi liberano le prigioniere e le affidano agli americani.
Ma la liberazione rappresenta l’inizio di altre, nuove sofferenze: sia gli americani sia gli inglesi si dimostrano insensibili nei confronti delle deportate politiche, e non si fanno scrupolo di dimostrare il loro disprezzo per queste donne che sospettano di aver concesso favori sessuali ai nazisti. Le abbandonano a se stesse, senza riconoscere loro nemmeno il diritto di ricevere i pacchi della Croce Rossa.
Lidia sopporta tutto con grande forza d’animo. Rimane a Lubecca, in un ex campo di prigionia, per tre mesi, finché la protesta collettiva delle donne obbliga gli inglesi, responsabili del campo, a disporre il loro ritorno. Un viaggio di quindici giorni per sperimentare, con immensa amarezza, una accoglienza fredda e distante. Tornata in patria, molti la giudicano poco più di una prostituta: pregiudizi durati molto a lungo e molto diffusi, anche tra i partigiani stessi. Gli sforzi di Lidia si infrangono contro un muro di indifferenza.
Rientra nel giugno del 1945. Naturalmente lei nulla sa degli sviluppi delle lotte partigiane e di tutto quanto era accaduto in Italia prima della liberazione. Vuole sapere, va alle riunioni dei vari partiti che si preparano per le elezioni, cerca di capire e di partecipare. Dopo molti tentativi, nei quali cerca di raccontare le sofferenze patite, si chiude in un mutismo triste, carico di una diffidenza che avverte anche da parte della sua famiglia, che pure l’ha riaccolta con gioia.
Il mutato clima politico degli anni successivi peggiora la situazione: con la guerra fredda il nemico è diventato il comunismo, dei crimini nazifascisti non si parla. La società italiana risulta ancora contaminata dal passato fascista: burocrati, politici e personale scolastico, compromesso con il passato regime, mantengono ruoli di potere, spesso emarginando i testimoni scomodi. A lei viene impedito di riprendere servizio nella scuola da un provveditore dal passato fascista, rimasto al suo posto.
Vive isolata, a parte i contatti che tiene con le poche persone che hanno vissuto la sua stessa esperienza. Ancora nessuno in Italia ha sentito parlare di Ravensbruck, citato solo in un libro scritto da Lord Russell e pubblicato in Italia nel 1955: Il flagello della svastica.
Finalmente Lidia riesce a riprendere l’insegnamento, in paesini sperduti. Anche qui viene guardata con diffidenza, controllata dalle autorità scolastiche per il suo passato partigiano e la deportazione in Germania.
Entra in contatto con alcuni deportati con i quali riesce a confrontare le esperienze vissute. Partecipa al primo congresso dell’Associazione ex-deportati a Verona, nel gennaio del 1957. Nessuna donna sarà eletta negli organi dirigenziali e permane il silenzio su Ravensbruck.
Nel secondo congresso, tenutosi a Torino nel dicembre del 1958, si verifica un mutamento di indirizzo e Lidia entra a far parte del consiglio nazionale. È la sola donna a parlare. La sala è piccola e le persone che assistono non sono molte. Tra queste però ci sono numerosi giovani, meno compromessi con il passato, sinceramente interessati alle testimonianze pubbliche dei sopravvissuti ai campi nazisti, desiderosi di sapere.
Incoraggiata dall’interesse riscontrato, Lidia raccoglie gli appunti scritti di getto quando non aveva ancora vent’anni e li rielabora. È una svolta. Consegue la laurea e inizia a insegnare all’Istituto magistrale di Mondovì. Ora le è chiaro che il suo compito è quello di ricordare e si trasforma in una testimone instancabile di un’epoca, di esperienze profonde, sconvolgenti, incredibili.
Il suo impegno non viene mai meno, pur sofferente per i postumi della prigionia. Instancabile, racconta ai giovani la propria storia, va nelle scuole e promuove incontri. Per lei non esistono “ex deportate”, perché quella è un’esperienza che non si può cancellare e ritiene essenziale far conoscere alle nuove generazioni quegli avvenimenti.
Dobbiamo in gran parte a lei se conosciamo la realtà di Ravensbruck e il destino delle donne prigioniere in quel campo. Centotrentadue mila prigioniere, novantadue mila di loro morte, moltissime delle scampate debilitate nel fisico e nella mente, molte sottoposte a crudeli esperimenti medici.
Lidia Beccaria Rolfi sarà, dal 1958 fino alla sua morte – avvenuta nel 1996 – la rappresentante per l’Italia del Comitato internazionale di Ravensbruck.
Stringe un’intensa amicizia con Primo Levi, saldata dalla medesima esperienza e dal profondo bisogno di tramandare la memoria alle future generazioni. Il figlio Aldo racconta, in un intervento alla casa della memoria di Milano il 26 febbraio 2016, che spesso Primo Levi la chiamava: “ho bisogno di aria del campo”, le diceva.
Ha scritto altri libri. L’esile filo della memoria, spesso messo a confronto con La Tregua di Primo Levi è dedicato al ritorno dalla prigionia e al difficile reinserimento dei reduci nella vita civile. Un terzo libro, Il futuro spezzato, uscito postumo nel 1997, scritto insieme a Bruno Maida, è dedicato al destino dei bambini perseguitati dai nazisti. Lo stesso coautore scriverà, con affetto e sensibilità: Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi1.
Lidia ci ha lasciato i suoi preziosi taccuini, scritti durante la prigionia. Il figlio ha recentemente compiuto un viaggio a ritroso, riportando i suoi scritti a Ravensbruck, dove sono stati scansionati per essere mostrati ai visitatori. La direttrice del campo non aveva mai visto niente di simile e ne ha subito compreso la grande importanza documentale, storica e umana.
In occasione dell’uscita del film di Liliana Cavani Portiere di Notte, Lidia interviene nel dibattito pubblico polemizzando con forza contro il modo in cui la regista presenta il rapporto vittima-carnefice. Reagisce con profonda indignazione alla trattazione del tema della trasgressione erotica nel contesto dell’Olocausto nazista. Anche questa polemica la spinge alla stesura del suo primo libro, il già citato Le donne di Ravensbruck, che scrive in collaborazione con Anna Maria Bruzzone.
Si impegna con forza come insegnante e come politica, (nelle file del Partito socialista sarà eletta vicesindaco e assessore di Mondovì) sempre con una forte carica rinnovatrice e anticonformista. La sua attività è intensa: organizza una mostra itinerante sulla deportazione, attirandosi gli strali della stampa di destra, in particolare del «Candido». Fa parte dell’associazione per la lotta contro le malattie mentali e crea un doposcuola per i figli degli immigrati. Dopo la legge sull’aborto, è l’unica componente del consiglio di amministrazione dell’ospedale di Mondovì a vigilare sulla sua applicazione, mentre amministratori e medici si dichiarano obiettori. Anche in queste occasioni, il ricordo di Ravensbruck è presente, quando cita le centinaia di donne arrivate incinta, anche di otto mesi, e fatte abortire, in condizioni indescrivibili, affinché potessero lavorare.
Questa voce è stata realizzata grazie alla collaborazione con Laura Lepri Scritture
Fonte: Enciclopedia delle donne