Filosofo greco (Atene 428 o 427 a. C. – ivi 348 o 347). Era di famiglia agiata e nobile; la tradizione racconta che gli era stato inizialmente imposto il nome del nonno, Aristocle, e che quello di Πλάτων gli fu dato più tardi con scherzosa allusione al suo esser πλατύς “largo”. Ebbe soprattutto un’educazione artistica, studiando musica, pittura e letteratura e segnalandosi in particolare nella composizione poetica e drammatica. Già nel periodo della giovinezza venne in contatto con la filosofia, come dimostra il fatto che ebbe Cratilo tra i suoi maestri. All’originaria influenza eraclitea che gli veniva da Cratilo sarebbe comunque ben presto subentrata quella di Socrate, che pare abbia conosciuto all’età di vent’anni. L’influsso determinante di Socrate sul suo pensiero è documentato dai moltissimi scritti in cui la figura del maestro viene idealizzata e il suo pensiero presentato in forma drammatica. Dopo la morte di Socrate (399), a cui, come ricorda egli stesso nel Fedone, non assisté a causa di una malattia, si recò, insieme con altri condiscepoli, a Megara presso il socratico Euclide, da dove tornò presto ad Atene. Rimastovi qualche tempo, iniziò il primo dei suoi viaggi maggiori, che secondo la tradizione lo condusse anche in Egitto, e a Cirene, dove sarebbe venuto a contatto col matematico Teodoro. È fuor di dubbio, comunque, che in questo viaggio P. visitò la Magna Grecia e la Sicilia, e fu a Siracusa alla corte di Dionisio il Vecchio, grande estimatore della cultura della madrepatria e conoscente del pitagorico Archita di Taranto, con cui P. era entrato in rapporto. A Siracusa strinse amicizia col giovane cognato di Dionisio, Dione, che restò per sempre conquistato ai suoi ideali filosofici ed etico-politici. La libertà delle sue critiche e delle sue esortazioni morali non incontrò tuttavia il favore del tiranno, che si sbarazzò, in modo non chiaro, della sua presenza: e il nobile filosofo ateniese, che era allora sulla quarantina, finì venduto schiavo sul mercato di Egina, dove fu però riscattato da un Anniceride di Cirene (da non confondere con l’omonimo pensatore della scuola cirenaica, vissuto assai più tardi). Tornato in maniera così fortunosa ad Atene, P. vi fondò (387), nella forma d’una comunità religiosa dedicata al culto delle Muse, un centro di discussione e di studî, che dalla sua sede, la quale traeva il nome dal mitico eroe Academo, si disse ᾿Ακαδημία (v., per la storia di tale istituzione, accademia: L’accademia platonica). All’indagine filosofica in seno all’Accademia P. si dedicò per circa un ventennio. Ma nel 367 successe a Dionisio il Vecchio, sul trono di Siracusa, il figlio Dionisio il Giovane: e Dione, il quale contava d’indurlo a instaurare quella costituzione più liberale e legalitaria che doveva rispondere all’ideale politico dell’Accademia, lo persuase a invitare nuovamente P. a Siracusa. Qui P. si recò nel 366, esercitando anche sul giovane monarca, e forse anche di più che sul padre, il suo influsso; ma ciò non impedì che Dionisio, sobillato da oppositori delle progettate innovazioni costituzionali e divenuto sospettoso di Dione, bandisse quest’ultimo, pur trattenendo P. presso di sé. Il piano politico era ormai fallito, perché solo Dione avrebbe potuto realizzarlo. Quando nel 365 scoppiò una guerra in Sicilia e P. tornò ad Atene, Dionisio gli promise che, al termine della guerra, lo avrebbe invitato di nuovo a Siracusa insieme con Dione. E infatti, finita la guerra, il tiranno fece di tutto per indurre P. a tornare a Siracusa. Nella speranza di giovare così all’amico Dione, P. intraprese nel 361 il suo terzo e ultimo viaggio in Sicilia. Ma neppure questa volta l’esito fu favorevole: Dionisio inasprì anche più i provvedimenti contro Dione, e i suoi rapporti con P. si fecero così difficili da mettere in pericolo lo stesso ritorno del filosofo ad Atene, reso possibile, nel 360, soprattutto dall’intervento di Archita. Da allora in poi P., dedito esclusivamente ai lavori dell’Accademia, non si mosse più dalla sua città, ove si spense nel 348-347 a. C.
Siviglia in “Dizionario di Storia”
OPERE
La parte più importante dell’opera platonica è costituita dai dialoghi, che, ordinati nella tarda antichità in tetralogie, o gruppi di quattro, per approssimativi criterî di contenuto, hanno dato molto da fare alla critica moderna sia per l’esclusione di quelli non autentici, sia per l’ordinamento cronologico degli autentici e per la conseguente ricostruzione della storia intellettuale del loro autore. In generale, al periodo giovanile dell’attività platonica appartengono quegli scritti (Apologia di Socrate, Critone, Ione, Protagora, Carmide, Lachete, Liside, Eutifrone, i due Ippia) in cui la personalità di Socrate si riflette in forma più aderente alla sua reale statura storica: egli vi appare nella sua più tipica attività d’interlocutore e indagatore filosofico, alla ricerca di determinazioni e definizioni concettuali. Altri (tra cui il Gorgia, il Menone, l’Eutidemo, il Cratilo) cominciano a mostrare più spiccato l’orientamento platonico della polemica e ad anticipare qualche lineamento di quelle dottrine che sono poi pienamente esposte nei grandi dialoghi della maturità, il Simposio, il Fedro, il Fedone, la Repubblica. Negli scritti appartenenti alla fase più tarda dell’attività di P. (il Teeteto, il Parmenide, il Sofista, il Politico, il Filebo, il Timeo, il Crizia, incompiuto, le Leggi) sono posti e discussi i complicati problemi suscitati dalla prima costruzione della dottrina: allo splendore drammatico ed estetico dei dialoghi della maturità subentra il rigore del metodo logico. ▭ Il Corpus Platonicum contiene opere già nell’antichità considerate spurie, quali i dialoghi Erissia, Alcione, Sisifo, Assioco, Demodoco, Sul giusto, Sulla virtù, la raccolta delle Definizioni e l’Epinomide (per cui v. Filippo di Opunte). La filologia moderna ha dubitato a lungo dell’autenticità delle Lettere; oggi si ritiene quasi concordemente che molte di esse siano autentiche, e certamente la VII, forse l’ultimo scritto di P. e documento di eccezionale interesse. Quasi unanimemente si considerano spurî i dialoghi Alcibiade primo, Teagete, Clitofonte, Minosse.
LA FILOSOFIA
Più che un corpo sistematico di dottrine, la filosofia di P. è un complesso di problemi soggetti a una continua evoluzione. Nei dialoghi giovanili, o “socratici”, P. appare totalmente impegnato ad approfondire e a elaborare le tipiche problematiche socratiche: le tesi sull’identità di virtù e scienza, sulla determinazione di tale scienza come “scienza del bene e del male in generale”, sull’insegnabilità della virtù, sul potere di attrazione, rispetto alla volontà, del bene, che si rivela quindi anche come ciò che è sommamente piacevole ed utile (eudemonismo), sull’involontarietà del male, ecc. Tuttavia, proprio dalla riflessione su queste tesi socratiche cominciano a sorgere problemi nuovi: e innanzi tutto P. avverte come quei valori, di cui era andato in cerca Socrate (bene, giustizia, virtù, coraggio, ecc.), non possono pretendere di avere quella stabilità e universalità che è loro richiesta se non sono concepiti come “realtà” che, al contrario di ciò che cade sotto i sensi, non muta e non perisce. Di qui la “crisi” del socratismo che si manifesta nel Menone e nel Gorgia, il primo dei quali esprime l’esigenza di un nuovo concetto di scienza, come conoscenza di verità eterne acquisita prima della nascita, mentre il secondo fonda un rigoroso dualismo tra bene e piacere, tra mondo eterno dei valori e mondo mutevole delle passioni e dei desiderî, tra anima e corpo.
Momento fondamentale per questi sviluppi è l’elaborazione platonica della dottrina delle forme eterne del reale, nota nella tradizione come “dottrina delle idee”. Strettamente connessa alla ricerca socratica della definizione e dei concetti universali, tale dottrina ne rappresenta un’originale e più vasta articolazione. I concetti universali sono certamente necessarî per i giudizî morali, come aveva del resto già precisato Socrate: senza i concetti di bene e di giusto, infatti, non sarebbe possibile distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto; ma essi sono indispensabili per la stessa conoscenza della natura: come in tutte le azioni virtuose si riconosce la presenza di ciò che si chiama virtù, così in una molteplicità di manifestazioni sensibili riconducibili a un’unità dovrà essere colto ciò che costituisce l’essenza universale, stabile e immutabile comune a tutte quelle manifestazioni. È questa essenza che permette di dire di ciascuna cosa che cosa essa sia e che cosa la distingue da un’altra, per es. che cosa sia un uomo nella sua essenza e che cosa distingua un uomo da un cavallo. Modelli o criterî oggettivi e puramente intellettivi in base a cui poter pensare, nominare e distinguere le singole realtà che si manifestano nella conoscenza sensibile, o, anche, termini di paragone a cui confrontare queste ultime per poterne giudicare con verità, i concetti universali sono per P. forme, essenze dotate di una propria sussistenza ontologica: sono enti reali che costituiscono la ragione delle cose. È nell’introduzione di questa dimensione ontologica che consiste essenzialmente il passaggio dal “concetto” socratico all'”idea” platonica, l’ἰδέα o εἶδος “immagine, esemplare, forma”. Il tipo di esistenza che spetta alle idee è tuttavia diverso da quello delle cose comuni: queste, in quanto soggette al divenire, sono particolari, contingenti e mutevoli, mentre le idee, in quanto modelli e criterî delle cose sensibili, sono universali, necessarie ed eterne e godono pertanto di un’esistenza intelligibile in un mondo ideale. Eternamente costante nelle sue determinazioni, il mondo ideale “invisibile” è un mondo eleatico che si oppone a quello eracliteo del divenire “visibile”; esso è il mondo dell’essere: le idee sono infatti ὄντως ὄντα “le cose che realmente sono”. Le idee, così, sono non soltanto principî o criterî gnoseologici delle cose, come erano i concetti socratici, ma fondamento ultimo della loro stessa esistenza. Le cose sensibili, in quanto traggono dalle idee il loro fondamento ontologico, sono connesse alle idee mediante un rapporto di “partecipazione” (μέθεξις): la singola particolare realtà in tanto esiste ed è possibile in quanto partecipa dell’idea. Date le difficoltà di comprendere come l’essenza possa rimanere identica a sé stessa e nello stesso tempo essere presente nelle molteplici realtà che ne partecipano, P. avrebbe poi individuato soprattutto nella “somiglianza” (μίμησις “imitazione“) delle cose sensibili alle idee il loro rapporto, considerando le prime come immagini o copie delle idee.
Risolto così in una prospettiva ontologica il problema socratico del concetto, P. indicava nella contemplazione intellettuale delle idee la vera scienza, in quanto contrapposta al regno dell'”opinione” dell’esperienza sensibile. In particolare, autentica scienza è la conoscenza delle idee e dei rapporti reciproci che le collegano in un sistema ordinato. Non soltanto, infatti, le idee si caratterizzano per l’universalità che consente a ciascuna di riferirsi a una molteplicità di cose singole; esiste anche un ordine tra le idee a seconda del maggiore o minore grado di universalità che spetta a ciascuna di esse: l’idea di cavallo è compresa in quella di quadrupede, che abbraccia molti altri individui del mondo animale; quest’ultima è cioè più estesa della precedente, e più estese ancora sono le idee di animale e di vivente. Si dà così una gerarchia di idee che da quella più universale discende via via verso quelle dotate di sempre minore universalità e, perciò, di sempre maggiori determinazioni. Si trova qui la radice di quella che sarà la definizione per genere prossimo e differenza specifica, elaborata successivamente da Aristotele. Ma, soprattutto, attraverso la gerarchia delle idee P. dava una nuovo significato alla dialettica: opponendosi alle degenerazioni sofistiche che avevano ridotto la dialettica a eristica, cioè all’arte del vincere in ogni discussione indipendentemente dalla ricerca della verità, P. intende la dialettica come lo strumento supremo della conoscenza, quello in virtù del quale, messi da parte l’opinione e ogni riferimento sensibile, si ripercorrono i rapporti e i nessi oggettivi tra le idee, pervenendo alla contemplazione di quella gerarchia delle idee che costituisce la struttura più autentica della realtà.
Ma affinché l’uomo possa, attraverso il procedimento puramente intellettivo della dialettica, orientarsi nella gerarchia e nei rapporti delle idee, è necessario che egli conosca, o abbia la facoltà di conoscere, ciascuna di queste idee. Dal momento che esse non sono conoscibili mediante i sensi e che, nondimeno, la pura attività intellettiva è in grado di intuirle pur attraverso la molteplicità e la particolarità sensibile, P. ne conclude che l’anima abbia conosciuto le idee in un precedente periodo della sua esistenza, allorché, non ancora congiunta col corpo e vivendo nel mondo immortale dell’Iperuranio (ὑπερουράνιος “sopraceleste”), ha potuto contemplare le idee nella loro sede, per poi dimenticare tale visione nella sua successiva vita terrena. Ma a poco a poco, riflettendo sulle somiglianze e sulle dissomiglianze delle cose, l’anima è ricondotta al pensiero dei supremi esemplari verso cui tali somiglianze si orientano, e si ricorda di ciò che vide. È questa, a grandi linee, la dottrina platonica dell'”anamnesi” (ἀνάμνησις), o “reminiscenza“, come fonte di ogni conoscenza terrena delle idee, dottrina che implica da un lato che le idee siano innate nell’anima, dall’altro che l’anima sia immortale. L’anamnesi comporta, in realtà, soltanto la preesistenza dell’anima alla sua vita corporea, e non la sua esistenza ulteriore dopo la morte del corpo, né la sua durata eterna. Ma essa presuppone intanto che l’anima possa vivere indipendentemente dal corpo, e che in tale esistenza separata abbia conosciuto verità di gran lunga superiori a quelle che derivano dai sensi; ed è così un elemento importante di quella dimostrazione dell’immortalità dell’anima, che nel Fedone è poi data soprattutto in base all’affinità di natura che l’anima deve avere con le forme eterne perché possa conoscerle.
Ma poiché l’anima è immortale e la sua vita corporea non è che un provvisorio e doloroso stato di “prigionia”, essa, riacquistata memoria della sua origine e del suo destino, non desidera che di tornare alla sua sede eterna, sottraendosi all’esilio terreno. Da questa concezione deriva una morale caratterizzata da un netto orientamento verso l’aldilà, che la distacca dalla pratica e terrena saggezza di Socrate e l’avvicina piuttosto alla religione degli orfici e alla filosofia dei pitagorici. Dagli uni e dagli altri P. riprende l’idea della “metempsicosi” (μετεμψύχωσις) o trasmigrazione dell’anima attraverso varie esistenze corporee, non soltanto umane, ma anche animali. Ogni esistenza è determinata dal comportamento morale dell’anima nell’esistenza precedente: più essa si lega al corpo, cedendo ai suoi desiderî e lasciandosene dominare, più basso, nella gerarchia naturale, è l’organismo corporeo in cui deve trasmigrare. Quando invece l’anima giunge a liberarsi dagli interessi corporei, acquista la capacità di vivere sola e di tornare all’originaria sede sopraceleste, dove contemplò le idee. Nel suo significato ultimo la filosofia diviene così per P. una “preparazione per la morte”, volta a liberare l’anima dal corpo. Ciò si ottiene esercitando sempre più, nella vita, quelle facoltà dell’anima che meglio corrispondono alla sua natura divina e meno implicano il suo legame col corpo. Di qui l’importanza, sul piano etico, della stessa filosofia, concepita come l’attività puramente intellettiva attraverso cui l’anima si distacca da ogni elemento corporeo. La filosofia, infatti, in quanto è “amore di sapere”, esprime una tendenza irresistibile a tornare a quello stato contemplativo del mondo ideale sperimentato dall’anima nella sua vita nel mondo sopraceleste, tendenza che insorge nell’anima quando in essa si ridesta il ricordo, attraverso l’ausilio della dialettica, della realtà ideale che costituisce il modello eterno di quella sensibile. In questa prospettiva rientra anche la ridefinizione platonica, nei termini di una tensione dell’anima verso il mondo delle forme ideali, della concezione socratica dell’attrattiva che la conoscenza dei valori esercita sul volere: l’idea suprema, della cui essenza partecipano tutte le altre, è infatti quella del bene (che P. paragona al sole), la quale esercita un’attrattiva irresistibile sull’anima, spingendola a elevarsi sempre di più nel dominio dell’universale. In questa tensione all’ideale e all’eterno, delineata nel Simposio attraverso la figura del demone Eros, consiste il cosiddetto “amore platonico”, forza che, mediando tra il sensibile e l’intelligibile, spinge l’anima alla contemplazione della bellezza ideale e, perciò, data l’inscindibilità di “bello” e “bene”, del vero bene.
Se la vita pratica, il mondo dei sentimenti e dei desiderî terreni vengono così confinati dall’etica platonica nella sfera corporea, d’altra parte la morale di P. non implica una totale svalutazione dei desiderî e degli impulsi che caratterizzano la vita corporea: si tratta piuttosto di riconoscere la presenza nella stessa anima di questi elementi, secondo la dottrina psicologica esposta nella Repubblica, e di mantenerli in uno stato di subordinazione e di equilibrio, in modo che non ostacolino l’anima nella realizzazione del suo compito morale più elevato. Secondo la celebre immagine del Fedro, l’anima è come un carro alato guidato da un auriga e trainato da due cavalli: l’auriga ne rappresenta la parte razionale e intellettiva, quella che conosce la verità e il bene, mentre i due cavalli ne rappresentano rispettivamente la parte coraggiosa o irascibile, da cui derivano gli impulsi nobili, e la parte concupiscibile o desiderante, sede degli impulsi legati alla sfera corporea. La concezione psicologica espressa da questa immagine, oltre che una dottrina morale, implica anche una dottrina politica. È proprio su questa psicologia, infatti, che, nella Repubblica, P. basa la dottrina dello stato ideale diviso nelle tre classi dei filosofi, che contemplando le idee lo dirigono razionalmente; dei soldati, o “guardiani”, che lo difendono; e dei produttori, che ne assicurano l’esistenza dal punto di vista economico. Eguali di conseguenza sono le virtù che presiedono a ciascuna delle tre parti dell’anima e delle tre classi dello stato: rispettivamente la sapienza, il valore, la temperanza, sulle quali sovrasta poi la giustizia, che, facendo operare nel proprio campo ciascuna parte o classe e impedendole di oltrepassare i limiti delle sue funzioni, assicura il miglior ordine tanto nella sfera morale quanto in quella politica. La perfezione dell’anima è così, da questo punto di vista, non tanto nella negazione ascetica delle passioni, e in genere di ogni attività non contemplativa, quanto nella subordinazione armonica delle facoltà inferiori alle superiori. Analogamente, nello stato non v’è salute se le classi non partecipi della sapienza non obbediscono a coloro che, più vicini alla verità, meglio degli altri possono intuire ciò che per lo stato è bene e legiferare e governare in conformità a tale conoscenza. Si ha quindi un’assoluta aristocrazia del sapere, da cui deriva un’estensione dei poteri statali fin sulla proprietà e la famiglia, risolte nell’unica famiglia e proprietà dello stato. Questo dualismo di politica e ascesi, di interesse fattivo per il mondo e pessimistico orientamento verso l’aldilà, che P. propriamente non concilia (nonostante una certa prevalenza del motivo ascetico, dal momento che la stessa Repubblica culmina in una rappresentazione mistica del destino oltremondano dell’anima del tutto analoga a quella che chiude il Fedone), si rispecchia infine, nella forma più tipica, nella negazione del valore dell’arte, che per P. non è conoscenza e manifestazione di verità, ma costruzione fantastica, che dalla verità sempre più si allontana. E se la singola individualità esistente è imitazione dell’idea, l’artista che raffigurando o descrivendo la imita produce una realtà che nella gerarchia degli enti occupa il terzo e infimo grado. Non solo: ma le rappresentazioni della poesia e dell’arte, agitando nel modo più vivo le forze passionali dell’uomo, rendono più difficili il loro dominio o la loro eliminazione, e così contrastano il compito supremo della filosofia. Riferendosi alla divinità la umanizzano, e le attribuiscono qualità indegne della sua eterna natura.
La riflessione sul tema dell’eleatismo sia parmenideo sia melissiano sta alla base del profondo riesame che P. compie di tutta la sua filosofia negli ultimi dialoghi (i “dialoghi dialettici”). Dopo aver rinnovato nel Teeteto una critica organica e approfondita dell’opposta tesi metafisica del sensismo, di origine eraclitea, P. affronta la problematica eleatica in due dialoghi cruciali, nel Parmenide e nel Sofista. Nel primo P. risponde a tutte le critiche contro la dottrina delle idee che egli immagina gli siano rivolte da Parmenide e da Zenone. Superata l’obiezione zenoniana, la tesi di una molteplicità di idee e della loro realtà non poteva ancora essere garantita di fronte alla rinascente obiezione parmenidea, per cui ogni realtà particolare (cioè parte di un molteplice, come lo è anche ciascuna idea) si presenta come tale che “è” sé stessa e “non è” tutte le altre, mescolanza, quindi, di “essere” e di “non essere” e pertanto apparenza, ma non vera realtà. E così P. nel Sofista si rivolse a compiere il “parricidio”, a confutare cioè la tesi centrale del “venerando e terribile” Parmenide e a dimostrare che anche il “non essere” in qualche modo “è”. Il punto fondamentale di questa dimostrazione sta nella risoluzione del “non essere” nell'”alterità”: quando noi diciamo che una cosa “è” sé stessa e “non è” le altre non facciamo altro che mettere in evidenza ciò che in essa vi è di “identico” (ταὐτόν) con sé stessa e ciò che vi è di “diverso” (ἕτερον) dalle altre, e quindi che essa “è” identica con sé stessa ed “è” diversa dalle altre. Il discorso, così, si muove sempre nel piano dell'”essere” e viene meno la contraddizione parmenidea. Su questa base P. può da un lato elaborare una nuova e compiuta descrizione del metodo dialettico come “divisione” (διαίρεσις) dei generi e delle specie e in essi di ciò che vi è di identico e di ciò che vi è di diverso (metodo, di cui P. stesso dà molteplici esemplificazioni nei dialoghi detti appunto “dialettici”); e dall’altro dare un’adeguata risposta alle aporie sofistiche, ciniche e megariche nella predicazione: la “comunanza” (κοινωνία) dei generi e delle specie (l’identico) e la loro differenza (il diverso) creano tutta una trama di rapporti ontologici che il pensiero e il linguaggio devono rispecchiare quando connettono soggetto e predicato. Non solo, ma può trovare finalmente una soluzione anche il problema dell’errore, inspiegabile e inconcepibile finché interpretato come un dire e un pensare “ciò che non è”, ma perfettamente chiarito se inteso come un dire e un pensare il “diverso”. I risultati così conseguiti e la fecondità della nuova dialettica sono messi alla prova da P. anche nell’analisi dei problemi etici e politici. Nel Filebo infatti egli tenta, correggendo anche il precedente rigido dualismo tra bene e piacere, d’inserire positivamente il piacere (o almeno il piacere “puro“) nella scala dei valori morali, anche se al di sotto del bene e della scienza; nel Politico poi, pur ribadendo l’opportunità che il potere tocchi solo a coloro che sono sapienti nella scienza politica (o “arte regia”), manifesta un’attenzione più comprensiva della realtà concreta che mitiga l’utopia della Repubblica e prepara il vasto affresco giuridico costituzionale delle Leggi.
Questa attenzione più comprensiva della realtà concreta che è caratteristica, per tanti aspetti, dell’ultimo P. sta altresì alla base della cosmologia del Timeo e dell’estremo tentativo di mediare il rigido dualismo tra mondo delle idee e mondo sensibile, che è del resto visibile anche in quella dottrina delle “idee-numeri”, come intermediarî tra le idee e le cose, che ci è nota non dagli scritti di P. ma dalla testimonianza di Aristotele. Il Timeo è un lungo “mito” o racconto sull’origine e la formazione del mondo. Esso si ricollega nel suo inizio alla Repubblica, di cui riassume la prima parte. Il racconto del Timeo prende avvio dalla ribadita distinzione tra “ciò che è sempre e non ha nascita” e “ciò che nasce sempre e mai è”: il cielo, o piuttosto tutto il “cosmo”, in quanto corporeo e visibile, non è stato sempre, ma è nato, cominciando da un “principio” e per opera del divino artefice, il Demiurgo, che ha plasmato il mondo a immagine del modello eterno: plasmato e non creato, perché P., oltre che del modello e della copia, parla anche di un “ricettacolo universale”, che è il luogo (χώρα) in cui si svolge il divenire e che in sé comprende le determinazioni della materia e dello spazio. Poiché nulla è più bello del “vivente”, il mondo, opera bellissima del Demiurgo, è anch’esso un vivente, fornito di un’anima (l’Anima del mondo) che il Demiurgo ha formato con l’essenza dell’indivisibile (eterno) e con quella del divisibile (divenire), unendo ad esse un’essenza “mista”, che partecipa dell’identico e del diverso. Una rigida proporzione matematica, la stessa che presiede all’armonia musicale, regola la composizione del cosmo, strutturato in due cerchi intrecciati, di cui quello esterno è quello dell’identico e l’altro è quello del diverso, distinto a sua volta in sette circoli ruotanti e costituenti le orbite planetarie, mentre il tempo, “immagine mobile dell’eterno”, scandisce la regolarità dei loro movimenti. L’azione del Demiurgo e degli altri dèi inferiori, la loro opera di mediazione rispetto al modello eterno è possibile solo in quanto esistono, come intermediarî, gli enti matematici: i veri elementi delle cose infatti non sono i quattro della tradizione naturalistica (la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco), ma le figure geometriche, che determinano secondo regole precise la superficie, e quindi la corporeità, di tutte le cose: terra, acqua, aria e fuoco anzi traggono le loro proprietà dal fatto che sono conformati secondo specie determinate di poliedri regolari. È da queste premesse che P. svolge nel Timeo le varie e complesse ipotesi e dottrine che vanno dalla cosmologia all’astronomia, dalla teologia astrale alla matematica, dalla fisica all’antropologia, dalla biologia alla medicina: questo stesso carattere enciclopedico e sistematico spiega l’enorme, e forse unica, fortuna che quest’opera ha avuto nel corso dei secoli.
IL PLATONE “ORALE”
La maggior novità nel campo degli studî platonici della seconda metà del sec. 20° è costituita dalla rinnovata discussione sulle cosiddette “dottrine orali” (ἄγραϕα δόγματα) suscitata dall’interpretazione “esoterica” o “tubinghese” dovuta principalmente a H. J. Krämer, K. Gaiser e Th. A. Szlezák, interpretazione che ha poi trovato consensi anche in Francia (P. Hadot) e in Italia (G. Reale). Che esistessero dottrine che P. avrebbe esposte solo oralmente nell’Accademia era noto sia da ciò che dice Aristotele sia da altre fonti: celebre sarebbe stata una lezione Sul bene, dove P. avrebbe sostenuto che i numeri sono i principî di tutte le cose. La scuola di Tubinga, basandosi sulla tesi di P. circa la superiorità del discorso orale rispetto a quello scritto e sulla sua esplicita affermazione, nella VII Lettera, di non aver mai messo per iscritto la sua vera dottrina, ne ha concluso che queste dottrine orali costituiscono l’autentica filosofia di P., quella che starebbe sullo sfondo del P. “essoterico” dei dialoghi. Secondo l’interpretazione di Krämer, se il senso del pensiero platonico è da individuare soprattutto nelle dottrine orali e se queste sono costruite sulla teoria dei “principî”, allora il pensiero di P. appare meno connesso all’insegnamento di Socrate e più direttamente dipendente dall’orizzonte presocratico: a partire dal problema dei principî, e non dal concetto socratico, P. sarebbe giunto infatti alla dottrina delle idee.
IL PLATONE LATINO
Nell’Occidente latino, fino al sec. 12°, era nota, tra le opere di P., solo la prima parte del Timeo nella traduzione e con l’ampio commento di Calcidio (4° sec. d. C.), recepita come testo fondamentale per la cosmologia altomedievale. A Enrico Aristippo, vescovo di Catania (m. 1162), risalgono le prime traduzioni latine del Menome e del Fedone, mentre a Guglielmo di Moerbecke (m. 1286) si deve la traduzione, sebbene parziale, del Parmenide col commento di Proclo (traduzioni queste pubblicate in edizione critica nel Corpus platonicum Medii Aevi diretto da R. Klibansky, 1939 e segg.). Agli inizî del sec. 15°, in seguito all’insegnamento della lingua greca per opera di Manuele Crisolora, ripresero le traduzioni latine delle opere platoniche, Fedro, Apologia, Critone, Lettere da parte di Leonardo Bruni, la Repubblica da parte di Pier Candido Decembrio, Eutifrone da parte di Rinuccio Aretino e Francesco Filelfo. A metà del sec. 15° la traduzione delle Leggi e del Parmenide a cura di Giorgio Trapezunzio segnò una svolta per l’elaborazione teorica del platonismo rinascimentale. La traduzione, infine, dell’intero corpus platonico ad opera di Marsilio Ficino (stampata a Firenze nel 1484) prenderà il sopravvento sulle precedenti traduzioni umanistiche e verrà ristampata nei secoli successivi (v. anche platonismo).
ICONOGRAFIA
Sappiamo che, per incarico dello scolaro Mitradate di Chio, era stato eseguito dal bronzista Silanione un ritratto collocato nell’Accademia, forse quando P. era ancora in vita. Se ne conoscono più di una quindicina di copie marmoree, fra cui le migliori sono a Berlino, a Roma (Museo nazionale romano), in una collezione privata tedesca. P. appare con una barba folta, con la fronte corrugata.
Fonte: Treccani