Il nuovo piano di Fitto sui fondi europei è la negazione dell’autonomia leghista
Valerio Valentini
Roma. Forse serve affannarsi alla ricerca delle manine, e risalire all’autore di più o meno improvvide imboscate parlamentari, e accanirsi nell’esegesi dei messaggi cifrati tra alleati. O forse no. Forse, per registrare la distanza che c’è tra Lega e FDI in tema di autonomia, basta attenersi agli atti ufficiali. Come quello, ad esempio, che giovedì scorso Raffaele Fitto ha inviato ai governatori. “Elementi per la proposta di accordo con le regioni”, è il titolo della “nota di sintesi”: ed è un documento di tre pagine che, nella sua essenzialità, rappresenta una picconata sostanziale all’autonomia delle regioni. Ma non a quella da costruire, quella per cui tanto si batte il ministro Roberto Calderoli. Quello che è emerge dalla lettera è l’avvio di un nuovo corso che riduce le già esistenti prerogative delle regioni, e su un aspetto fondamentale: l’utilizzo dei fondi europei.
Al fondo del documento di Fitto, c’è un’accusa molto netta alla gestione delle risorse comunitarie. O, se si vuole, la constatazione di un fallimento conclamato. I governatori, infatti, durante la Conferenza stato-regioni di giovedì erano tornati a chiedere al ministro meloniano lo sblocco del Fondo di sviluppo e coesione del periodo 2021-2027: si tratta, nel complesso, di 48,3 miliardi di euro che le regioni rivendicano, e che il governo di Giorgia Meloni continua a trattenere, disconoscendo un’intesa preliminare siglata al tramonto della stagione di Draghi. E però, se i governatori, sia pure con diverse tonalità di polemica, speravano un po’ tutti di mettere Fitto con le spalle al muro, in verità è stato lui, con un rendiconto spietato, a ribaltare la logica accusatoria. Sulla programmazione 2014-2020, scrive il ministro, “dei 126,6 miliardi di euro complessivi, a fine 2022 risultano spesi circa 43 miliardi di euro, una quota che si riduce a 36,5 miliardi di euro se si escludono le risorse impiegate per l’emergenza Covid”. Non solo. In relazione allo stesso ciclo di bilancio, “l’italia deve ancora realizzare entro il 31 dicembre 2023 una spesa pari a 29,9 miliardi di euro per i programmi europei, dei quali 19,9 miliardi di quota Ue esposta al rischio di disimpegno automatico”. Insomma, c’è qualcuno che ritiene di difendere l’attuale meccanismo di spesa?
Se questa è la premessa cristallina, la conclusione a cui arriva Fitto, però, deve apparire una negazione nei fatti dello spirito federalista che anima il partito di Matteo Salvini. Perché “alla luce delle evidenze indicate”, e allo scopo di “massimizzare le sinergie e le opportunità di integrazione” tra le risorse della coesione e quelle del Pnrr, ecco l’annuncio: il governo intende procedere “alla sottoscrizione di apposita Intesa programmatica tra la presidenza del Consiglio, le Regioni e le Province autonome”. Una procedura, dunque, che solo “sulla base della condivisione di adeguata progettualità” porterà poi ad “assegnare le ulteriori risorse nazionali, incluso il Fondo di sviluppo e coesione”. Sembra un dettaglio: è invece un cambio di metodo notevole, rispetto alla prassi consolidata. Ne consegue, infatti, che Fitto sbloccherà quei 48 miliardi che le regioni rivendicano – e che vanno assegnate al Mezzogiorno per una cifra non inferiore all’80 per cento – solo a seguito di incontri bilaterali tra la sua struttura e quella di ogni singola giunta: e saranno riunioni che anzitutto dovranno chiarire le ragioni dei ritardi nella spesa delle risorse del 2014-2020, per poi vagliare i progetti che ciascun governatore vuole conseguire, valutandone sia “il livello di cantierabilità” sia la compatibilità con gli obiettivi del Pnrr. Di lì, dopo il vaglio da parte di Palazzo Chigi, verrà definito un “Piano pluriennale di interventi di rilevanza strategica a valere su tutte le risorse europee e nazionali disponibili per la coesione”. Piano vincolante, che costituirà per ogni regione qualcosa di analogo a ciò che il Pnrr costituisce per il governo centrale.
E insomma ciò che finora le regioni facevano in sostanziale autonomia, sottoponendo poi al governo i piani di spesa elaborati per un via libera che era quasi sempre scontato, ora diventa una prerogativa su cui Roma ha potere di decisione e di veto. “Il Piano pluriennale di interventi e il corrispondente fabbisogno finanziario per la sua attuazione – si legge nel passaggio conclusivo del documento firmato da Fitto – saranno definiti a seguito di un’apposita istruttoria tecnica coordinata dal Dipartimento per le politiche di coesione della Presidenza del Consiglio dei ministri”. E’forse l’unico modo, a detta di Fitto, per evitare di ritrovarsi tra sette anni a commentare le stesse risibili percentuali di impiego dei Fondi di coesione: circa il 34 per cento di quelli stanziati tra il 2014 e il 2020. E però, a guardarla con occhi federalisti, la procedura è una confutazione puntuale delle ragioni autonomiste propagandate dalla Lega. Il tutto, dopo che già, nella ridefinizione della governance del Pnrr, cioè nella decisione degli assetti decisionali sul più importante dossier economico del paese, Fitto aveva operato un convinto accentramento di poteri e prerogative in capo al suo ministero, fino ad assorbire in un suo dipartimento l’intera Agenzia per la coesione. Scelte, queste, che difficilmente sono giuste o sbagliate a prescindere, e che andranno misurate alla prova dei fatti. Al dunque, c’è però la contraddizione di un governo che persegue un disegno di riforma costituzionale in senso autonomista, salvo poi negare autonomia alle regioni sui piani di spesa e di investimento più rilevanti.
Fonte: Il Foglio