Il 24 maggio di venticinque anni fa, nel 1991, una flotta di 34 aerei militari e civili, della compagnia di bandiera israeliana El Al, in circa 36 ore riuscirono a portare quasi 15 mila ebrei etiopi da Addis Abeba, in Etiopia, in Israele. L’operazione è conosciuta come “Operazione Salomone” e fu la terza di un vasto programma di salvataggio organizzato dal governo israeliano e gestito dal Mossad, il servizio segreto israeliano, per salvare la vasta comunità dei cosiddetti “beth Israel”.
Gli ebrei neri d’Etiopia
Sulle origini della comunità ebraica che un tempo viveva in Etiopia sono state fatte molte ipotesi. I primi studiosi a interessarsene furono i francesi e gli italiani, senza però arrivare a una teoria comune: stabilirono comunque che il nome con cui venivano comunemente chiamati gli ebrei d’Etiopia – “falascià”, cioè “esiliati” – era dispregiativo: il nome più corretto da usare era “beth Israel” cioè “casa di Israele”.
Secondo la sociologa Ester Herzog, autrice di un importante lavoro di ricerca sugli ebrei etiopi, le prime notizie storiche e documentabili sulla comunità risalgono al 600-700 dopo Cristo. Le cronache del tempo parlano di un gruppo etnico-religioso “anomalo” che, sempre secondo queste fonti, per circa tre secoli visse in pace e in isolamento dal resto del paese. Secondo Herzog le persecuzioni degli ebrei etiopi da parte delle popolazioni vicine di religione musulmana e ortodossa cominciarono verso l’anno mille e proseguirono per diversi secoli.
Dalla metà dell’Ottocento, grazie al contatto diretto con studiosi e rabbini, i “beth Israel” cominciarono a capire di far parte di una ben più vasta comunità a cui poter fare riferimento; il mondo ebraico, anche se con qualche riserva, conobbe allora la loro esistenza. Si cominciò a verificarne in modo più approfondito le origini e la purezza del credo religioso, con molte discussioni tra chi sosteneva che fossero veri ebrei e chi no. Nel 1977, grazie al lavoro di una serie di comitati di tutela nati nel frattempo, in Israele si cominciò a pensare a un loro salvataggio e trasferimento.
La fuga dall’Etiopia di alcune famiglie di “beth Israel”, attraverso il confine con il Sudan, era cominciata all’inizio degli anni Settanta. La situazione politica dell’Etiopia in quegli anni era diventata infatti molto complicata. Nel 1974 l’imperatore Hailè Selassiè fu deposto da un colpo di Stato organizzato da alcuni ufficiali dell’esercito sostenuti dall’Unione Sovietica. Nel 1977 il potere fu assunto dal colonnello Mènghistu Hailè Mariàm, che instaurò un regime dittatoriale organizzando una violenta repressione di tutti coloro che riteneva fossero suoi oppositori, compresi gli “ebrei neri”. La situazione si aggravò per le conseguenze di due carestie, alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta. Molti etiopi e molti ebrei etiopi abbandonarono il paese rifugiandosi nei campi profughi del Sudan, dove il governo musulmano però non si dimostrò molto accogliente.
La situazione spinse Israele a organizzare dei piani di salvataggio. Nacquero così l’operazione Mosè (tra il novembre del 1984 e il gennaio del 1985), l’operazione Saba (nel marzo del 1985, realizzata anche grazie ad alcuni aerei da trasporto statunitensi) e, qualche anno dopo, l’Operazione Salomone.
L’operazione Salomone
Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e l’inizio della fine dell’Unione Sovietica, la situazione cambiò in tutto il mondo e anche in Etiopia: il governo militare di ispirazione comunista al potere dal 1974 – che era stato sostituito nel 1987 da un governo civile formato da un partito unico, con Mènghistu ancora al potere – entrò in crisi. La paura che gli ebrei neri ancora presenti in Etiopia potessero diventare bersagli di nuove violenze spinse il governo israeliano a predisporre un nuovo e ultimo piano di evacuazione.
All’inizio si cercò di organizzare l’operazione con l’autorizzazione delle autorità etiopi. Il governo israeliano prese contatti con Mènghistu, che diede il proprio consenso in cambio della fornitura di armi e munizioni. Il rilascio dei permessi per l’espatrio venne però continuamente rinviato, le richieste di Mènghistu e dei suoi sostenitori si fecero sempre più grandi fino a quando, nel maggio del 1991, la situazione precipitò e Mènghistu scappò dal paese. Per il timore che le forze di opposizione si vendicassero con i “beth Israel” per il sostegno che Israele aveva dato a Mènghistu, il trasferimento venne organizzato nel giro di pochi giorni sotto la direzione del Mossad.
L’operazione Salomone scattò il 24 maggio del 1991. Furono coinvolti 34 aerei, sia civili che militari. I “beth Israel” furono radunati vicino all’aeroporto di Bole a Addis Abeba, praticamente senza bagagli, e gli aerei di linea vennero completamente svuotati di sedili e paratie. A ogni persona venne attaccato sulla fronte un adesivo con un numero progressivo, come identificazione provvisoria, e in circa 36 ore furono evacuati circa 14.500 ebrei etiopi. All’arrivo in Israele vennero nuovamente identificati, curati, nutriti e vestiti. Il primo ministro israeliano di allora, Yitzhak Shamir, proclamò di aver «adempiuto a un obbligo morale».
In realtà la storia dell’integrazione dei “beth Israel” nella loro nuova casa fu molto complicata: sui 120 mila “falascià” presenti oggi in Israele, la gran parte nati dopo l’immigrazione dei loro genitori, più della metà vive nelle periferie al di sotto della soglia di povertà. Il tasso di disoccupazione tra loro è molto elevato e ancora oggi sono discriminati: alla fine degli anni Ottanta il ministero della Sanità israeliano emanò per esempio una direttiva per costringere tutti gli immigrati etiopi a sottoporsi a test per l’AIDS, causando violente proteste. La sociologa Ester Herzog ha spiegato: «Le spicce modalità adottate nei primi tempi da Tel Aviv per favorire l’accoglienza degli ebrei etiopi altro non fanno che rallentare l’integrazione di questi ultimi, e rischiano di provocare un’assimilazione forzata e traumatica».
Fonte: ilpost.it/