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Decolonizzare la conservazione dell’ambiente

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di Sofia Belardinelli

“Noi, rappresentanti delle comunità Maasai di Ngorongoro e Loliondo, ci rivolgiamo a voi perché le nostre vite e la nostra cultura sono minacciate dai piani del governo tanzaniano di espropriare 167.000 Maasai dalle nostre terre, per fare spazio al turismo, allo sviluppo economico, alla caccia alla fauna selvatica. Questi piani distruggeranno i nostri mezzi di sussistenza ed eroderanno la nostra capacità di preservare le nostre tradizionali attività di sostentamento, e con esse la trasmissione intergenerazionale delle conoscenze tradizionali, la nostra struttura sociale e le nostre istituzioni tradizionali, nonché le nostre pratiche culturali e spirituali. Tutto ciò sarà causa di povertà, frammentazione del tessuto sociale, perdita della dignità umana».

Sono le prime righe di un appello alla solidarietà con i popoli Maasai destinato alla comunità internazionale, alla quale i numerosissimi sottoscrittori del documento si rivolgono chiedendo che il loro diritto ad abitare i territori dei propri antenati – territori ai quali la loro cultura e il loro stile di vita sono strettamente legati – sia riconosciuto dalla comunità internazionale, e dunque attivamente difeso dai piani di espropriazione decisi dal governo della Tanzania.

Il documento è interessante perché spiega quali siano le motivazioni alla base di questa azione del governo tanzanese. Ufficialmente, l’ordine di allontanamento dei Maasai dalle proprie terre (sulle quali non hanno proprietà giuridica, ma in cui risiedono tradizionalmente da centinaia di anni) è giustificato da motivazioni ambientali: la presenza di queste comunità e lo svolgimento di attività tradizionali (soprattutto pastorali) ai confini di un’area protetta costituirebbe un rischio per la conservazione degli ecosistemi locali, che invece dovrebbero essere posti sotto protezione.

L’ideologia della ‘natura incontaminata’

Alla base di questo provvedimento vi è un approccio alla conservazione piuttosto diffuso, fondato sull’idea di dover mantenere o ripristinare una natura “incontaminata”, libera cioè da ogni influsso o presenza umani. Tale approccio, però, è viziato da un errore teorico di fondo, che consiste nel considerare gli esseri umani come un elemento estraneo al mondo naturale, il quale, dunque, potrebbe essere davvero considerato tale solo se privo di qualsiasi segno del passaggio della specie umana.

Una simile prospettiva è stata il baluardo della maggior parte delle iniziative novecentesche di conservazione della natura attuate nel mondo. Negli Stati Uniti d’America, dove il movimento per la tutela della wilderness ebbe origine, l’istituzione di grandi parchi nazionali ha portato con sé gravi sofferenze per centinaia di migliaia di persone appartenenti a popoli indigeni che, ben prima della “scoperta” dell’America da parte degli europei, abitavano – in piena armonia con gli ecosistemi che li ospitavano – quelle regioni naturali che gli studiosi moderni identificarono come ‘incontaminate’ e, dunque, bisognose di protezione.

Questo schema – l’espulsione di intere popolazioni dai territori in cui, per secoli o millenni, esse avevano prosperato – ebbe successo anche al di fuori degli Stati Uniti, e venne prontamente replicato, nel corso del XX secolo, in moltissimi Paesi, soprattutto nel Sud globale pesantemente colonizzato dagli europei. A sostenere questo metodo di conservazione era una letale combinazione tra ignoranza scientifica circa gli ecosistemi locali, i loro abitanti (umani e non) e le relazioni tra questi e un esplicito paternalismo di stampo colonialista, che ha spinto generazioni di studiosi occidentali e politici – coloniali prima, locali poi – a mettere in atto piani di conservazione ambientale fortemente razzisti e forieri di profonde ingiustizie.

Nonostante le conoscenze scientifiche circa il rapporto tra umani e non umani abbiano ormai dimostrato l’inesistenza di alcuna separazione tra questi due mondi – che sono, in effetti, un mondo unico –, l’impostazione colonialista e razzista nei confronti dei popoli indigeni rimane ancora oggi fortemente radicata, e continua a nuocere.

Colonialismo verde, oggi

Torniamo dunque alla lettera indirizzata dai capi Maasai alla comunità internazionale: in Tanzania, nel 2022, la criminalizzazione e l’espulsione di comunità indigene dai loro territori ancestrali è ancora una pratica consolidata. Inoltre, ancora una volta, tutto questo viene coperto da una patina ‘verde’ e presentato come intervento necessario in un’ottica di protezione ambientale.

Ma, come in molti altri casi (documentati soprattutto nei continenti africano, asiatico e latino-americano), la protezione ambientale è soltanto un vessillo: una volta istituite, infatti, le aree protette non vengono rese totalmente inavvicinabili e trasformate in santuari della biodiversità, come ci si aspetterebbe da una misura vòlta a tutelare un’ipotetica “natura incontaminata”. Recintate e monitorate da corpi di controllori armati, sono sì rese inaccessibili agli (ex) abitanti, ma vengono invece aperte – come sottolineato dai Maasai nella loro lettera aperta – all’attività di caccia di animali selvatici e al cosiddetto ecoturismo, che però, in questi contesti, troppo spesso si trasforma in turismo di lusso (nonché di massa), con un impatto non indifferente in termini di salvaguardia della biodiversità locale. Una lampante contraddizione.

“Decolonizzare la conservazione” è un’urgenza sempre più evidente, con ricadute tanto sul piano ambientale quanto su quello sociale. Riconoscere alle comunità indigene autonomia decisionale e sovranità sui propri territori e sulle proprie tradizioni culturali (due aspetti strettamente legati l’uno all’altro) è essenziale per garantire loro non solo la dignità, ma anche i fondamentali strumenti di sussistenza.

Le conoscenze indigene, un bene al servizio del mondo vivente

D’altra parte, non forzare questi popoli a lasciare le regioni dei loro antenati significa garantire la migliore protezione possibile per gli ecosistemi locali. In barba all’idea secondo la quale l’essere umano è un corpo estraneo nel mondo naturale, sono numerosi gli studi che dimostrano l’esistenza di una sovrapposizione geografica tra i territori abitati dai popoli indigeni e gli hotspot planetari di biodiversità.

Da questo fatto – ampiamente confermato dalla ricerca scientifica – è possibile trarre due conclusioni: da una parte, che l’uomo non è intrinsecamente ‘nemico’ della natura, ma anzi si è evoluto insieme agli ecosistemi e ai loro abitanti non umani; dall’altra parte, che ancora oggi esistono delle modalità di relazione con il mondo non umano che vanno a beneficio di quest’ultimo, tutelandone la varietà e la ricchezza. A riconoscere l’importante contributo fornito dalle comunità indigene per il mantenimento della biodiversità è, ad esempio, un fondamentale Rapporto rilasciato nel 2019 dall’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), nel quale si legge che «Un’ampia diversità di pratiche offre un contributo attivo e positivo alla biodiversità selvatica e domestica, “accompagnando” i processi naturali con risorse antropogeniche (conoscenze, pratiche e tecnologie). Le popolazioni indigene spesso gestiscono le regioni terrestri e le aree costiere sulla base di visioni del mondo legate alla propria cultura, ricorrendo a principi e parametri quali la salute della terra, la cura del territorio e la responsabilità reciproca».

Alla luce di queste ragioni, la scelta di espropriare gli indigeni dei propri territori si rivela totalmente ideologica, scellerata tanto dal punto di vista ambientale quanto sul piano delle potenziali ricadute sociali. Nel corso dei decenni, l’applicazione alle politiche di conservazione della rigida dicotomia tra natura e cultura ha lasciato disastri dietro sé: decisori politici e ambientalisti hanno ritenuto che il sacrificio dei popoli indigeni fosse il prezzo necessario per proteggere il cosiddetto ambiente “naturale”; il risultato è stato un numero indicibile di violenze ai danni di intere comunità locali, nonché la degradazione di quegli stessi ambienti che si volevano proteggere, ma che, una volta eliminate le popolazioni indigene, rimanevano alla completa mercé di una gestione esterna guidata da logiche economiche e incapace di eguagliare la conoscenza dei territori ancestrali detenuta dagli indigeni.

Abbandonare l’ideologia della wilderness è dunque il primo, necessario obiettivo di una più vasta trasformazione della nostra comprensione del rapporto tra umani e non-umani: non dualismo e separazione, ma coevoluzione e coappartenenza. Con queste lenti, possiamo distinguere in modo più nitido anche lo strisciante colonialismo che caratterizza gran parte delle strategie di conservazione dei cosiddetti hotspot di biodiversità, e contestualizzare in modo più completo i conflitti tra popoli indigeni e governi nazionali. Voler estromettere dalla conservazione, in nome della conservazione stessa, comunità che per secoli o millenni hanno convissuto, plasmato e protetto biomi di fondamentale importanza per la ‘salute’ del pianeta è una scelta non soltanto sbagliata – per motivi scientifici, ecologici, culturali ed etici –, ma miope.

Le esperienze e le conoscenze che costituiscono il bagaglio culturale dei popoli indigeni sono una ricchezza inestimabile, soprattutto in un’epoca di rapidi e drammatici mutamenti ecologici. Il fallimento del conservazionismo alla occidentale suggerisce che tra obiettivi di conservazione dell’ambiente e garanzia dei diritti dei popoli indigeni non vi sia contraddizione, ma continuità: giustizia ambientale e giustizia sociale sono due facce della stessa medaglia.

 

Fonte: Il B Live Università di Padova