Di Adriana Langtry fonte@enciclopediadelledonne.it
Juana Azurduy voce dell’Alto Perù non c’è capitano più coraggioso di te.1
Juana nasce a Chuquisaca, capitale dell’Alto Perù (poi Bolivia), sede di una delle più importanti città universitarie dell’America spagnola, vicina alla miniere d’argento di Potosí. La regione, un altopiano dove le Ande raggiungono, in media, i quattromila metri, divenne nel primo quarto del XIX secolo il fulcro delle lotte per l’emancipazione a sud del continente. Prima alle dipendenze di Lima, la zona passa nel 1776 a far parte del Vicereame del Río de La Plata con capoluogo a Buenos Aires.
Juana nasce il 12 luglio 1780 (lo stesso anno dell’insurrezione di Tùpac Amaru II) dall’unione del proprietario terriero Matías Azurduy e della meticcia Eulalia Bermudez. Passa la prima infanzia in campagna a Toroca, nella proprietà paterna, godendo dei privilegi di una vita all’aria aperta. È suo padre a fare di lei un’amazzone provetta e sua madre a insegnarle il quechua, la lingua degli Inca che la bambina utilizza per comunicare con gli indigeni della fattoria. Si racconta che don Azurduy la portasse con sé nei lunghi viaggi di lavoro; aveva perso l’unico figlio maschio prima della nascita di Juana e l’arrivo della seconda figlia, Rosalía, non basterà a colmarne la mancanza.
Juana viene mandata in città per essere iniziata al sillabario, al ricamo e al catechismo, ma sua madre muore di un male fulminante e poco tempo dopo suo padre viene ucciso per questioni di cuore. Dall’oggi al domani le sorelle Azurduy rimangono orfane sotto la tutela degli zii, più interessati alla proprietà appena ereditata che alla cura delle bambine. Il rapporto con la tirannica zia doňa Petrona Azurduy si fa sempre più difficile. I tutori decidono allora di rinchiuderla in convento. Juana ha diciassette anni e non si oppone, ma non passa neanche un anno quando viene espulsa dal monastero a causa di uno scontro con la madre superiora. Non avendo alternative rientra in famiglia con la ferma decisione di non farsi più sottomettere.
Nuovamente a Toroca concorda con i tutori di vivere nella proprietà lasciata da suo padre, aiutando nell’amministrazione della fattoria. Nel contatto con la natura e con la gente di campagna Juana ritroverà la libertà. È in questo periodo che la giovane recupera la lingua quechua dell’infanzia e impara l’aymarà, lingua dell’altopiano andino che le permette di entrare in contatto diretto con le popolazioni. Attraversa al galoppo i possedimenti e conosce la dolorosa vita dei creoli e degli indigeni, dei minatori appena ventenni coi polmoni scavati, delle donne meticce emarginate dalla gerarchizzata società coloniale. Nelle ore di riposo frequenta la casa dei Padilla, antica famiglia già amica di suo padre, dove rincontrerà il secondogenito Manuel Ascencio. I giovani si sposano nel 1805. Lei ha venticinque anni, lui trenta.
I primi anni dei coniugi Padilla non si scostano da quelli di tutti i matrimoni creoli di buona posizione. Nel 1806 nasce il primo figlio Manuel seguito in breve da Mariano, Juliana e Mercedes. Nel frattempo Manuel Ascencio tenta la sua scalata politica come funzionario nel governo di Chuquisaca, ma come tutti i creoli viene messo da parte a causa delle discriminazioni razziali.
Ma a Chuquisaca si respira aria di cambiamento, rafforzata dalle notizie dell’indipendenza degli Stati Uniti e del re ghigliottinato in Francia. I libri dell’Enciclopedia francese e le opere di Rousseau girano nelle aule universitarie frequentate dai futuri indipendentisti. In questa città il 25 maggio 1809 un’agitazione popolare destituisce il viceré. La rivolta verrà presto soffocata, ma i Padilla aderiscono senza mezzi termini alla causa rivoluzionaria. È l’inizio dell’insurrezione anticolonialista che infiammerà la regione per circa sedici anni fino alla formazione degli stati indipendenti del Sud America.
Tra il 1811 e il 1816 la coppia collabora con le spedizioni militari inviate dalla giunta creola appena insediatasi a Buenos Aires. Manuel Ascencio a capo di un esercito di indigeni mette in atto azioni di guerriglia contro l’avanzata realista. Doňa Juana, casacca militare e sciabola al fianco, percorre a cavallo la regione in cerca di volontari. Recluta uomini e donne coi quali organizzerà tre battaglioni: i Leali, gli Ussari e il corpo femminile delle Amazzoni. Intanto le autorità hanno confiscato i beni della coppia. Padilla è ricercato e Juana viene imprigionata insieme ai quattro figli. Il vero obiettivo dei realisti è di catturare il capo guerrigliero che alla fine, aggirando la vigilanza, riesce a liberare la sua famiglia. Dal 1813, mentre le forze di Buenos Aires si ritirano dall’Alto Perù dopo una nuova sconfitta, i caudillos altoperuviani proseguono da soli la lotta per l’emancipazione. La regione è ormai suddivisa in zone d’insurrezione (republiquetas) sotto la giurisdizione dei capi locali. La coppia s’insedia a La Laguna, territorio di Charcas, da dove guideranno gli attacchi per diversi anni. Cresce l’alone mistico intorno alla figura della giovane donna. Gli indigeni la chiamano “Pachamama”, la Madre Terra. Si racconta che in certe zone viene adorata come l’immagine della Vergine. La si vede girare coi pantaloni bianchi, la casacca militare e un berretto ornato dall’insegna bianco-celeste, i colori della bandiera appena creata dall’indipendentista Belgrano, lo stesso generale che facendole dono della sua sciabola le conferisce nel 1816 il grado di Tenente Colonnello dell’esercito argentino.
È da supporre comunque che Juana si trovi nella condizione esistenziale di ogni donna, divisa tra l’ impegno militare e la famiglia. A dire il vero è difficile trovare un’immagine della guerriera priva di una certa retorica, così come mancano informazioni sulla sua vita affettiva certamente segnata da privazioni e sofferenze.
Nel 1814, mentre Manuel Ascencio rimane in attesa di una controffensiva, Juana si vede costretta a lasciare La Laguna con i figli per cercare un rifugio sicuro. Le valli sono in mano ai nemici, non ha altre alternative che internarsi in una zona selvatica e paludosa. Il luogo è così inospitale che persino i pochi uomini che le fanno da scorta l’abbandonano. Privo di viveri e tormentato dagli insetti il piccolo gruppo si metterà in salvo solo qualche giorno dopo. Ma ormai i bambini sono esanimi. Manuelito, il primogenito di sette anni, muore di malaria prima che arrivino i soccorsi e in breve tempo lo seguono gli altri tre. Alcuni mesi dopo, mentre i rivoluzionari attendono l’assalto dei realisti, Juana dà alla luce Luisa, la quinta figlia della coppia che verrà subito affidata alle cure di un’indigena fedele. Madre e figlia si ritroveranno solo undici anni dopo in un rapporto segnato per sempre dalla lontananza e dalle difficoltà.
Nel 1816 la reazione contro i guerriglieri diventa ancora più efficace e feroce. Buenos Aires ha abbandonato definitivamente la strada che dall’Alto Perù conduce a Lima per quella che attraverso le Ande arriva in Cile. Sulla testa dei coniugi Padilla pende ormai una taglia e le file dei ribelli pullulano di spie e traditori. Il 14 novembre i realisti entrano a La Laguna. Juana, ferita in battaglia, riesce a mettersi in salvo. Manuel Ascensio invece viene ucciso. La testa mozzata di Padilla sarà impalata ed esibita per settimane nella piazza del paese insieme a quella di un’amazzone che i realisti confondono con Juana. Nel gruppo di ribelli s’instaura l’anarchia. Dopo qualche mese la donna riesce a radunare un’esigua truppa e con un attacco a sorpresa entra a La Laguna e recupera i resti del marito a cui dà sepoltura. Ma ormai nell’Alto Perù la situazione è compromessa.
Juana decide di scendere verso Salta (nel nord-ovest argentino) per sommarsi alle forze del generale Guemes che con le sue montoneras, l’esercito locale di gauchos, tiene da tempo il nemico sotto scacco. L’Azurduy combatterà insieme al caudillo durante tre anni, finché questo non verrà assassinato nel 1821.
La morte di Guemes getta Juana nella disperazione e nella miseria. A seguito di numerose richieste dopo quattro anni ottiene dall’amministrazione locale qualche soldo e quattro muli per affrontare il ritorno a Chuquisaca, la sua città natale ora facente parte della neonata Repubblica di Bolivar (poi Bolivia). In una lettera datata 7 novembre 1825 e inviata all’altra grande rivoluzionaria latinoamericana Manuela Sáenz, Juana racconta della visita personale che ricevette dallo stesso Simon Bolivar e della tristezza di vedere nel governo repubblicano molti di quei anti-rivoluzionari contro i quali da sempre aveva combattuto. Il presidente Sucre le concede a quei tempi una pensione minima che le verrà tolta anni dopo durante le lotte fratricide che si abbatteranno sulle nuove repubbliche.
Juana vivrà il resto della sua vita in condizioni precarie, lontana da sua figlia ormai sposata e dalla sua famiglia con la quale non riprenderà mai i contatti. Muore a quasi ottantadue anni, il 25 maggio 1862. È sotterrata in una fossa comune. I suoi resti, riesumati dopo un secolo, giacciono nel mausoleo costruito in suo onore nell’attuale città di Sucre.
Canzone rivoluzionaria. ^