Type to search

Il caso Orlandi e un rischio tossico. Cercare verità non con i “si dice”

Share

 

Di Angelo Scelzo fonte@avvenire.it

 

Il caso Orlandi, la ragazza residente in Vaticano, di cui non si hanno più notizie dal pomeriggio del 22 giugno 1983, è ritornato di grande attualità per una serie di eventi giudiziari e no. L’apertura di un’indagine da parte del Vaticano, annunciata ai primi di gennaio 2023, e la successiva istituzione di una Commissione d’inchiesta parlamentare sono i due fatti che attengono alla ricerca della verità da parte vaticana e da parte italiana. Sono trascorsi 40 anni, ma il tempo per accertare che cosa è realmente accaduto a Emanuela Orlandi, non può mai venire a scadenza. Anzi, più il tempo passa e più stringente, oltre che moralmente impellente, diventa la ricerca della verità.

L’avvio delle due iniziative giudiziarie è stato comprensibilmente caratterizzato da una ripresa di tutti gli elementi – e sono tanti e di diversa natura – già entrati nel campo delle indagini svolte a suo tempo dalla magistratura italiana, e concluse con l’archiviazione. È sempre più evidente come tra questi elementi ne emerga ora uno nuovo, un tempo solo adombrato in qualche contorno generale, ma proposto a questo punto in una dimensione talmente forte e definita da richiedere una riflessione più ponderata e qualche immediato chiarimento.

Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, che fin dal primo momento sta conducendo una sua ammirevole ricerca della verità, ha di fatto introdotto negli ultimi tempi – attraverso interventi e dichiarazioni di cadenzati appuntamenti televisivi, accompagnato dall’avvocato di fiducia – l’elemento di un diretto coinvolgimento di papa Giovanni Paolo II in tutti i drammatici passaggi della vicenda Orlandi. Nei suoi interventi è stato via via sempre più esplicito, fino a dichiarare di aver sentito dire che «Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi» aggiungendo che «non andava certo a benedire le case». Non basta. È stata fatta riascoltare una registrazione audio in cui il coinvolgimento del Papa veniva “assicurato” da un componente della famigerata “banda della Magliana”.

Una registrazione choc, con un’interruzione dai «contenuti irriferibili», che Pietro Orlandi ha detto di aver consegnato al promotore di giustizia del Vaticano, in una lunghissima deposizione, nella sua forma integrale. A corredo di affermazioni così sconvolgenti e tutte incentrate sulle responsabilità di san Giovanni Paolo II, Pietro Orlandi ha anche sostentuto che, per ammissione comune, nel 1983 la pedofilia in Vaticano era praticamente accettata. Un gendarme, anzi, gli avrebbe confidato, subito dopo il rapimento, di aver sondato «quei tre o quattro cardinali» di cui si sapeva che avessero il “vizietto”, per attingere qualche informazione utile.

Forse proprio a causa della loro enormità, queste affermazioni hanno guadagnato una più che scontata ribalta. Ma a questo punto, quando la ricerca della verità sembra allungare il passo, si fa più urgente la necessità di una verifica a tutto campo anche sulle modalità in cui essa viene ricercata e allo stesso tempo “offerta”.

Pur di fronte all’ammirevole dedizione e all’incessante impegno del fratello di Emanuela e dei suoi collaboratori – e di tutti coloro ai quali sta a cuore la ricerca della verità –, non è possibile accettare che in questa fatica trovino posto i “si dice” o abbiano spazio affermazioni per non dire altro surreali, secondo cui «in Vaticano nel 1983 la pedofilia non era considerata reato».

Che senso può avere un’affermazione come questa? (per il poco che conta in 35 anni di frequentazione vaticana, mai sono stato sfiorato da una sensazione di questo tipo). Occorre essere chiari, e semmai avere il coraggio di dire che proprio per questa strada la verità può solo restare lontana. E poi: il rispetto che si deve a Pietro Orlandi, non può che comprendere anche il rammarico e il vero e proprio dolore che continuano a provocare alcune sue parole, fondate, appunto, sui “si dice” e su congetture senza il minimo dei riscontri.

Non è solo il fatto che sotto accusa sia messo un Papa, riconosciuto Santo ( che non è affatto poco). Ma se le prove sono quelle esibite, è la memoria di Wojtyla ad essere ingiustamente infangata. I diritti che giustamente si riconoscono a un uomo provato per la misteriosa scomparsa della sorella, non possono essere in qualche modo sottratti al buon nome (non si dice alla santità) di una persona che non può difendersi da accuse così infamanti. Non occorre, anzi appare addirittura banale, ricordare la figura di un gigante della Chiesa e della storia, un Papa amatissimo per restare esterrefatti e sconcertati di fronte ad affermazioni di così grave portata.

Proprio nel momento in cui sia dal versante vaticano, con l’assicurazione di papa Francesco di promuovere ogni sforzo verso la ricerca della verità, che da quello italiano il “caso Orlandi” riprende quota, appare necessaria una riflessione a tutto campo e da ogni lato. E stabilire innanzitutto che certi clamori non sono l’anticamera della verità.