di Giovanni Cominelli
I risultati elettorali hanno ripetutamente confermato che lo spazio politico del Terzo Polo o dei “centristi” o dei “moderati” nella Seconda sedicente repubblica va poco oltre il 10% dell’elettorato.
La vicenda politica di questi giorni conferma che è difficile fornirlo di un’unica rappresentanza, sia essa un partito unico o una federazione.
Sulle cause della ristrettezza di spazi per un Terzo polo molti hanno scritto. Per raggiungere l’orizzonte degli eventi, occorre alzare lo sguardo.
Per farlo, seguirò qui pedissequamente un libro recentissimo, “Occidenti e modernità”, scritto da Andrea Graziosi, uno storico prestato brillantemente alla politologia. Dopo gli anni delle aspettative crescenti, siamo entrati da qualche decennio in un periodo di “aspettative decrescenti”.
Il benessere finalmente conquistato nel dopoguerra ha comportato per ciascuno una maggiore attenzione al godimento del presente: meno ascetismo, meno sacrifici, meno figli, più tempo per “la creazione del sé”.
L’inverno demografico che ne è derivato, e che al momento appare come un’onda lunga irreversibile, è l’effetto cumulativo di milioni di scelte individuali, tutte perfettamente razionali, etiche e legittime, compiute già a partire dagli anni ’70.
Così dice l’ISTAT: caduta della natalità sotto il tasso di sostituzione morti/nati e innnalzamento delle attese di vita. Tuttavia, il risultato collettivo è che, per stare al demografo Alfred Sauvy, citato nel libro, le società europee sono ormai fortemente influenzate “da persone vecchie, che vivono in vecchie case, rimuginando vecchie idee”.
Persone “più portate alla commemorazione che all’immaginazione e all’innovazione”. Il passato è nostalgicamente glorioso, il futuro è ormai corto e forse infelice per una popolazione che sta invecchiando rapidamente.
La società italiana è sempre più piegata sul presente, la politica democratica la rispecchia perfettamente. L’imprenditore politico alla ricerca di un gran numero di voti e di potere sa in quale direzione pescare: i voti arrivano numerosi dallo scontento, dalla protesta, dalla rabbia, dal risentimento.
Sono le passioni tristi del declino. Non si tratta più della “collera dei poveri”, di cui scrisse Paolo VI nell’Enciclica Populorum Progressio del 26 marzo 1967.
Quella che corre oggi nelle vene nel nostro Occidente euro-americano – ma anche in quello di Putin – è la collera di chi possiede e non riesce più a conservare. Nel suo saggio del 2006, intitolato “Ira e tempo”, il filosofo tedesco Peter Sloterdijk lamentava che “siamo entrati in un’era priva di punti di raccolta dell’ira”.
Non abbiamo dovuto aspettare molto per vedere nascere in tutto l’Occidente “punti di raccolta”, dove portare all’ammasso le proprie paure aggressive, cioè le proprie rabbie.
Gli effetti sul sistema politico sono lì da vedere; la politica democratica si trova a gestire la rabbia del declino.
Si è condensato un blocco socio-culturale, come osserva Zakaria, un politologo citato da Graziosi, “pronto a sostenere chi promette di tenere a freno le forze del cambiamento culturale e sociale, non solo perché esso è troppo veloce, specie per una popolazione invecchiata, ma anche perché esso minaccia i vantaggi acquisiti, nobilitati nel linguaggio della sinistra in “diritti”.
Un blocco per la cui rappresentanza competono accanitamente la destra e la sinistra. Le piazze di Parigi messe a fuoco per alcuni giorni, perché i Francesi vogliono continuare ad andare in pensione a 62 anni, sono la rappresentazione plastica di questa polarità. È la competizione dei nuovi Enragés.
Solo che gli Arrabbiati del 1789 erano rivoluzionari, quelli di oggi sono conservatori. È così, comunque, che si prendono voti. Non più stando alla testa, ma in coda come le salmerie o nelle piazze, come teorizza Boccia. Al di là di qualche sbavatura retorica della destra sul “sendero luminoso” della ritrovata identità e collocazione nazionale nel mondo o della sinistra dei diritti individuali e sociali in espansione esponenziale, il loro sguardo arrabbiato è rivolto all’indietro.
È dunque evidente che una domanda socio-culturale liberale proveniente dalla società italiana è una domanda di minoranze.
Liberale, cioè? In primo luogo, una domanda di verità laica, anti-ideologica, razionale sulla drammatica condizione geopolitica presente – nella quale è in atto un ridimensionamento dell’Occidente storico – e di assunzione di responsabilità, da esercitare non solo verso il Sé, ma verso gli altri, verso il Paese, verso la specie e verso il Pianeta di tutti.
Abbandonarsi al declino o fare scelte in direzione opposta? Una domanda di rottura degli assetti corporativi che bloccano comparti fondamentali della società e dell’economia: dunque di una legge sulla concorrenza, di “flex-security” del mercato del lavoro, di differenziazione delle carriere e degli stipendi degli insegnanti, di separazione delle carriere dei magistrati.
Una domanda di investimenti e di riforme del sistema di istruzione ed educazione, che è il principale luogo di generazione delle forze produttive e dello sviluppo. Di politiche dell’energia, nucleare compreso. Domande di politiche della vita e della natalità; di immigrazione governata ecc….
Costruire la risposta politica a queste domande è necessario. Che sia anche possibile è questione di scelte e di volontà politica. Si tratta di un sentiero stretto. Incominciando, in primo luogo, a percorrerlo con un atto di terapia del linguaggio: “Terzo polo”, “Centristi”, “Moderati” sono sintagmi vuoti di significato.
E vuoti restano, anche se “qualificati” da cognomi tipo Renzi, Calenda, Moratti… Né bastano i tweet quotidiani per riempire il vuoto di proposte relative alla forma-stato, alla forma-governo, alla forma-partito e al programma di governo. Senza visione, non si costruisce una speranza. Tampoco un partito.