Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio di venti fa la morte a Roma per tumore del grande attore-regista, il più grande fenomeno divistico nazionale dopo Totò. In questo mio ricordo la ricostruzione della strepitosa carriera artistica, dagli esordi all’ultimo film
di Franco La Magna
Nato il 15 giugno del 1920 (alle 7, 25 minuti in via S. Cosimato, 17) all’ombra della satira disincantata e al vetriolo di Trilussa, nel cuore di una Roma universale, cinica e crapulona, il “trasteverino” Alberto Sordi – secondo solo a Totò in un’ipotetica classifica dei fenomeni divistici cinematografici italiani del XX secolo – rivela fin da bambino un’innata e prepotente passione recitativa, che lo accompagnerà per tutta la vita. Di lui Ennio Flaiano ha scritto d’essere la nostra vera cartina di tornasole, l’autobiografia nazionale, assegnandogli una caratterialità universale in un’Italia che lentamente si ricostruiva, dopo gli anni bui del fascismo e del secondo conflitto mondiale, poi del boom economico, degli anni di piombo postsessantottini, fino all’ingresso nel terzo millennio. In piena age d’or fascista si esibisce già in teatro ad appena dieci anni, poi giovanissimo entra nella compagnia di Ermete Zacconi, di Aldo Fabrizi, di Guido Fineschi. Nel 1938 viene scritturato dalla compagnia Riccioli-Primavera a cui molto deve per la sua affermazione e sarà proprio Nanda Primavera per molti anni una delle regine dell’Operetta (che poi ritroveremo in molti suoi film, tra cui “Il medico della mutua” e “Il prof. Guido Tersilli”, dove interpreta il ruolo della madre) ad assumerlo. Così lo stesso Sordi rievoca l’episodio: “Avevo 17 anni e andai a farmi vedere da Riccioli e Nanda Primavera assieme ad un mio amico con cui avevamo un duo di tip tap. Il provino andò male ma lei osservò che, in fondo, io avevo una bella figura e buon portamento. Mi domandò: ‘ Ma lei ce l’ha la giacca bianca, il bolero, il tight? ‘ Io non avevo niente di niente, neanche l’impermeabile, e allora serio e computo risposi: Tutto, tutto, signora, stia tranquilla, tutto. Poi un sarto di via Frattina, che aveva una paresi facciale, mi fece tutto per 1200 lire, giacca bianca, frac, tight, bolerino, cilindro, bastone e cappa” (“Epoca”, 11.02. 1985)
Diventa così macchietta d’avanspettacolo, attore di rivista, poi doppiatore (sua la voce di “Ollio” e di altri divi hollywoodiani, dopo aver vinto un concorso bandito dalla Metro Goldwyn Mayer), è comparsa, ballerino, musicista per “eredità paterna” (il padre, come è noto, era professore di musica). Nel 1943 lavora con la compagnia “Fanfulla”. “Alla fine della guerra – sono sempre parole sue – dovetti ricominciare tutto daccapo, perché nessuno mi conosceva al di fuori del ristrettissimo gruppo di persone che mia aveva visto nel Zu-Bum sotto l’occupazione”. Lavora in teatro fino al 1947, ma ancora nel 1952 partecipa a “Gran baraonda” di Garinei e Giovannini nella compagnia di Wanda Osiris, dove si esibiva anche il Quartetto Cetra che cantava “Non ti fidar di un bacio a mezzanotte” e dove s’innamorò di una delle ballerine, nonostante avesse già una relazione con l’attrice Andreina Pagnani (una delle grandi doppiatrici del cinema italiano) che, in qualità di amica, lo aveva raccomandato alla Osiris. Negli anni ’40 inventa per la radio alcuni celeberrimi personaggi (Mario Pio, il compagnuccio della parrocchietta, il conte Claro, il Signor Dice) che in parte trasferisce senza fortuna sullo schermo nel film “Mamma mia che impressione”! (1951) di Roberto Savarese, scritto con De Sica e Zavattini – che gli procurò l’attenzione di Federico Fellini – poco prima di consegnarsi allo strepitoso e crescente successo consacrato da un pubblico ammaliato e divertito che, prodigo di consensi dopo una fase di sussiegosa indifferenza, confligge senza clamori con una critica spesso tiepida, indifferente o troppo “ideologizzata” che per molti anni stenta a valutarne l’eccezionale portata artistica. Basti pensare, a misura del disprezzo di talune estremizzazioni ideologiche, che ancora nel 1978 nel suo film d’esordio “Ecce bombo”, Nanni Moretti ad un certo punto gli sbotta addosso inviperito tutta la sua acredine d’italiano indignato: “…rossi e neri sono tutti uguali, ma che siamo in film di Alberto Sordi?… bravo…bravo…te lo meriti Alberto Sordi”. E fortunatamente ce solo siamo meritato davvero.
Dopo l’insuccesso de “Lo sceicco bianco” (1952), viene caparbiamente e coraggiosamente incluso a forza nel cast de “I Vitelloni” (1953) da un Federico Fellini già onirico e barocco, costretto ad eliminare il suo nome dai manifesti, poi precipitosamente ristampati nella seconda tiratura con il suo nome in bella mostra, visto il favorevole riscontro del film al box-office. E con il personaggio scioperato, burlone, mammone, neghittoso e infantile di Alberto de “I Vitelloni” (seguito l’anno dopo da quello fortunatissimo di Nando Moriconi di “Un americano a Roma”, per cui conquista il titolo di “Governatore onorario” di Kansas City) s’invola nell’empireo del divismo nostrano e, almeno per tutti gli anni ’50 , lui – che più di ogni altro comincia a cesellare una sterminata galleria di personaggi – paradossalmente s’imbriglia (o meglio viene imbrigliato) nel cliché dell’uomo vile, qualunquista, indolente, scansafatiche, profittatore, arrivista, canaglia, gaglioffo e puttaniere, che diventa la sua cartina di tornasole.
Giganteggia tra radio, rivista, cinema e poi televisione, ma una critica miope, normativa, epidittica, deliberativa o pedagogica, lo snobba, non lo ama, sicché lo tipicizza imbozzolandolo e immiserendolo in un ipotetico paradigma, in una recitazione monocorde (per via di alcuni lazzi che lui assume come necessari tratti distintivi, adorati da un pubblico osannante), a scorno però del susseguirsi di memorabili interpretazioni (sorrette da uno sceneggiatore geniale e talentuoso come Rodolfo Sonego, suo scrittore fetish per tutta la vita) che disegnano, in oltre mezzo secolo e con tratto inconfondibile, la maschera impenitente, comico-grottesca, drammatica, penosa, servile dell’italiano medio, colto tra dopoguerra, boom economico e benessere, quella dell’arte di arrangiarsi, d’una frustrante e misera mediocrità in apparenza rifiutata dallo spettatore cinematografico, ma segretamente accettata perché – ahimé – talmente vera (fatte salve le necessarie concessioni plateali) da risultare più vera della finzione. Del suo ritratto impietoso dell’italiano si potrebbe dire quel che il grande drammaturgo Jean Jenet scriveva a proposito de “Le serve”, uno dei testi più sconvolgenti del teatro novecentesco: “Le Serve sono dei mostri proprio come noi quando fingiamo con noi stessi e sogniamo d’essere questa o quell’altra cosa. Esse ci permettono, rispecchiandoci in loro, di vederci come non sapremmo o non oseremmo vederci o immaginarci e tuttavia quali sappiamo di essere!”.
Alla fine del decennio d’oro del cinema italiano – i lontani gli anni cinquanta, quando nel 1957 si raggiunge la cifra sbalorditiva di 800 milioni di biglietti venduti e l’inizio del boom – la diversità di Sordi rispetto agli altri colonnelli della risata è incontrovertibile. “Senza Gassman – scrive Enrico Giacovelli – la commedia all’italiana sarebbe stata più smorta, senza Manfredi più distaccata, senza Tognazzi meno maliziosa. Ma senza di lui probabilmente non sarebbe esistita…”[1] giudizio ormai condiviso, in tardivo pentimento, anche da quella stessa critica severa, contegnosa e engagè che ne aveva fatto il campione del qualunquismo, del manierismo o peggio del macchiettiamo.
Al contrario dunque, con una casualità non programmata (ove si escludano le prove degli anni ’40), per attingere dalla fluviale produzione di Sordi basta estrarre titoli come i numeri d’una tombola, d’un bingo, attraverso cui, senza un percorso razionalmente preordinato, il puzzle casuale offre un caleidoscopio così cangiante da stordire, partendo proprio dall’opera che inizia a consacrarne il successo nazionale – “I Vitelloni” (1953), dove incarna un personaggio memorabile e da antologia, fanciullone, indolente, infingardo e perdente, pronto ad infrattarsi di fronte alle responsabilità della vita – subito seguito e perfezionato da quello spregevole, ellittico esempio ancora attualissimo (in un’Italia dominata e asservita ai cialtroni della politica) di tartufismo rappresentato dal catanese Sasà Scimoni de “L’arte di arrangiarsi”, nato dalla penna di un moralista inflessibile e fustigatore come Vitaliano Brancati che completa la trilogia Brancati-Zampa. Strepitosa l’interpretazione di Sordi nei panni d’un campione di trasformismo, prima liberale, poi socialista, marito per interesse, fascista e gerarca, comunista nel dopoguerra, infine intrallazzatore di piazza travestito da tirolese. Apparso postumo dopo la prematura scomparsa dello scrittore durante un intervento chirurgico a Torino.
Severo ma ingenuo il moralismo vagheggiato dalla renovatio brancatiana affidato all’improbabile denuncia d’un consigliere comunale, che blocca una speculazione edilizia determinando l’inizio dell’indecoroso decollo del camaleontico Scimoni. Non esente da irrisolutezze e squilibri politico-ideologici e soprattutto dal <<difetto e il rischio di ridurre il fascismo, per chi non l’abbia, conosciuto, a una burletta>>[2], la <<trilogia dell’impegno civile>> – specchio del diffuso malcostume nazionale – resta tuttavia ancor oggi uno dei prodotti più scomodi e pungenti della cinematografia italiana post bellica, antesignana non più eguagliata della migliore satira politica di costume.[3].
Un immenso giacimento culturale. 158 questo il numero dei film elencati nel sito ufficiale a lui dedicato, ma forse rimarrà un mistero quello reale delle interpretazioni (si parla di 187) a cui l’impareggiabile, instancabile, Alberto Sordi ha prestato le sue ineguagliabili, insuperabili, qualità artistiche. Un vero e proprio trattato visivo di sociologia, psicologia, storia, costume nazionale, con cui nel bene e nel male bisogna confrontarsi per comprendere caratterialità, miti, delusioni, fallimenti, frustrazioni, esaltazioni e sogni dell’italiano del secolo trascorso. Dopo le prime apparizioni degli anni ’30 (“comparsata” eponima è quella del 1937 in “Scipione l’africano”), dai due decenni successivi – dove (per citare soltanto i maggiori) svettano “Mamma mia che impressione” (primo ruolo da protagnosta: il boy-scout compagnuccio della parrocchietta), “Lo sceicco bianco”, “I Vitelloni”, “L’arte di arrangiarsi”, “Il conte Max”, “Un eroe dei nostri tempi”, “Bravissimo”, “Un americano a Roma”, “Buonanotte avvocato”!, “Accadde al penitenziario”, “Un giorno in Pretura”, “Piccola posta”, “I pappagalli”, “Il medico e lo stregone”, “Domenica è sempre domenica”, “Souvenir d’Italie”, “Fortunella”, “Racconti d’estate”…, – perfino nelle opere “minori”, spesso blasonate soltanto dalla sua presenza, anche pescando a caso nel mare magnum delle interpretazioni, si stenta a non trovare una folgorante eppur memorabile apparizione o un personaggio d’antologia, totemico, paradigmatico. Sconfinato, frastornante, tracimante come un fiume in piena, il cangiante pout-pourri della fauna umana rappresentata in 60 anni di strepitosa carriera: guitti dell’avanspettacolo, straordinaria scuola di formazione di quasi tutti i grandi attori italiani (“Gastone”, “Luci del varietà”, “I nuovi mostri” e “Polvere di stelle”, divenuto famoso anche per il tema musicale “Ma ‘ndo Hawai” ), conculcati del potere mafioso (“Mafioso”, credibile siciliano trapianto al nord, ma inesorabilmente legato alla mafia che lo costringe a diventare assassino), patetici imprenditori falliti (“Il marito”, “Il boom”, “Il vedovo”), ipotetici seduttori alla ricerca di paradisi sessuali (“Il seduttore”, “Il diavolo” con la straordinaria sequenza “muta” degli sguardi dentro il bar delle svedesi da sedurre, premiato con l’Orso d’Oro), borsari (“Sotto il sole di Roma”), soldati dell’antica Roma (“Due notti con Cleopatra”), avvocati (“Buonanotte…avvocato!”), brigante (“Il passatore”), un borgataro-gagà (“Canzoni, canzoni, canzoni”), camicia nera (“Amori di mezzo secolo”), Fregoli (“Gran varietà”), Nerone (“Mio figlio Nerone”), pseudo, falsi e veri aristocratici (“Arrivano i dollari!”, “Il conte Max”, “Quei temerari sulle macchine volanti”), amanti squattrinati (“Racconti d’estate”), ladri (“Accadde al penitenziario”, “Ladro lui, ladra lei”), scapoli irriducibili (“Lo scapolo”), maestri (“Bravissimo”, “Il maestro di Vigevano”, dal romanzo di Lucio Mastronardi, tragico fallimento del decoro piccolo borghese), falsi censori (“Il moralista”), mariti trascurati, infelici o cornuti (“La mia signora”), idealisti piegati ma non domi (“Una vita difficile”, l’indimenticabile personaggio del giornalista comunista Silvio Magnozzi, che ebbe particolarmente a cuore). E ancora: editori in crisi esistenziale (“Riusciranno i nostri eroi…”, in formidabile duetto con Bernard Blier), medici arrampicatori senza scrupoli (“Il medico della mutua”), primari arrivisti (“Il prof. Guido Tersilli…”), pretini santi e ingenui (“Contestazione generale”, “Nell’anno del Signore”) o carogne (“Quelle strane occasioni”), gondolieri sottanieri (“Venezia, la luna e tu”), mantenuti (“Souvenir d’Italie”), magliari mafiosi (“I magliari”), militari e paramilitari (“La grande guerra“, per il quale riceve il David di Donatello e “Tutti a casa”, altro David di Donatello, due film che riscattano con straordinari atti di eroismo la codardia dell’italiano medio, affrancandolo da ubbìe e incertezze con un soprassalto di orgoglio nazionale, pur non trasformandolo in eroe); ancora in divisa appare in “Giarabub”, “I tre aquilotti”, “Sant’Elena, piccola isola”, “Tripoli, bel suol d’amore”, “I due nemici”, “Il commissario”, “Il vigile”, Guardia guardia scelta brigadiere e maresciallo”, “Il disco volante”, dove interpreta quattro personaggi. Diventa spregevole commerciante di bambini ne “Il giudizio universale”, rappresenta con ironia tipologie d’italiani all’estero (l’antiquario di “Fumo di Londra” primo film da lui diretto e interpretato, “Un italiano in America”, “Bello, onesto, emigrato in Australia…”), giornalisti (“Guglielmo il dentone”); industriale con 6 amanti (“Scusi, lei è favorevole o contrario?”). Entra senza pedanterie o moralismi nella crescente crisi della coppia e del matrimonio (“I nostri mariti”, “Amore mio aiutami”, “Le coppie”, “Io so che tu sai che io so”); si camuffa da borgataro sfigato (“Lo scopone scientifico”), viscido sottoproletario (“Fortunella”), “fruttarolo” vacanziero (“Dove vai in vacanza”?, promuovendo attrice la sua sartina Anna Longhi). Con “Detenuto in attesa di giudizio”, un innocente perseguitato dalla legge, dà vita ancora ad una delle più drammatiche interpretazioni della sua carriera (David di Donatello e Orso d’Oro a Berlino nel 1972), uno dei pochi film nerissimi insieme al surreale “La più bella serata della mia vita” e il rabbrividente “Un borghese piccolo piccolo” (il povero Giovanni Vivaldi sconvolto dall’assassinio del figlio e divenuto giustiziere, una specie di dimesso Charles Bronson all’italiana) e pur con sequenze esilaranti “Finché c’è guerra c’è speranza”, mercante di morte venditore di armi, del quale firma anche la regia. Indossa con sorprendente nonchalance i panni di marchesi papalini (“Il marchese del Grillo” – icastico autoriconoscimento delle diversità di classe: “Io so’ io e voi nun siete un cazzo!”; “In nome del popolo sovrano”), quelli di ricchi avari molièrani (“L’avaro”), d’aristocratici neri e scismatici (“I nuovi mostri”), di malati (“Il malato immaginario”) o di pensionati on the road non ancora arresesi alla malinconia della vecchiaia (“Una botta di vita”). In “Un tassinaro” scarrozza sul suo taxi Giulio Andreotti e Federico Fellini, mentre nel sequel “Un tassinaro a New York” riesce a far catturare una banda di mafiosi, una revanche sul vecchio “Mafioso” in cui è costretto ad uccidere; descrive la deriva dell’Italia contemporanea attraverso il giudice incorruttibile di “Tutti dentro”, anticipando Tangentopoli.
Con lo struggente “Nestore, l’ultima corsa” (1994, vecchio vetturino in disarmo costretto a sbarazzarsi del cavallo, un altro dei suoi film più amati) racconta la solitudine e la tristezza della vecchiaia a cui l’uomo ha generosamente dedicato una cospicua parte del suo patrimonio attraverso la Fondazione da lui stesso creata nel 1992, ma subito dopo quasi a voler cancellare l’immagine di mestizia lasciata allo spettatore inventa “Incontri proibiti” (1998, inappagato desiderio sessuale con una giovane infermiera gerontofila), disgraziatamente errando sulla scelta della protagonista (l’opulenta Valeria Marini, attrice già di non elevate doti artistiche, qui poi alla sua peggiore apparizione cinematografica). Una “caduta” libera, canto del cigno d’un quasi ottuagenario, vergato ancora in tandem con il sodale e fedelissimo Sonego, con cui conclude la clamorosa carriera cinematografica, alla quale (se non avesse rifiutato, forse per sovraccarico di lavoro) si sarebbero potuti aggiungere altri almeno una decina di altri cult del cinema nazionale. Tuttavia, molti dei personaggi sordiani, tranne forse i pochi degli inizi della carriera e le irrecuperabili carogne inveterate, conservano – pur sempre nell’ambito della commedia – un fondo di velata tristezza, d’inappagatezza esistenziale, di smarrimento, di problematicità, perfetta incarnazione di quel che voleva e proponeva la grande commedia italiana mix di comicità e tragedia, lo spettacolo che la stessa vita quotidianamente offre, una comicità filtrata attraverso il dramma e viceversa. Nel 1979 per Rai Due dal 18 marzo al 22 aprile va in onda la domenica sera la prima serie di “Alberto Sordi, storia di un italiano”, da lui stesso diretto, in cui cuce con abilità spezzoni di film ottenendo un irripetibile successo di pubblico televisivo (oltre 12 milioni di telespettatori a puntata) che lo induce a preparare un secondo ciclo, andato in onda dal 4 novembre al 9 dicembre e ancora una terza serie, messa in onda dal 19 aprile al 7 giugno 1981, replicata nell’estate del 1982 e ancora tutte e tre le serie (sempre con altissimo gradimento) dal giugno a settembre 1985, sempre accompagnate da una sigla iniziale musicale che diventa una specie di hit, vera e propria cartina di tornasole del personaggio. Nel 1986 arriva anche una IV serie, sempre curata da Sordi e Nicoletta Leggeri. Nello stesso anno il Museum of Modern Art di New York, organizza una kermesse di film italiani dal titolo “Comedy, italian style” invitandolo come ospite d’onore insieme a Monica Vitti. Un’ultima serie di “Storia di un italiano” già quasi pronta, annunciata ma mai programmata, sarebbe dovuta andare in onda (come lui stesso mi ha personalmente confermato nel corso di un incontro pubblico tenutosi ad Acireale) qualche anno prima della morte, evento che purtroppo ne ha interrotto la realizzazione.
Circa due le decine di film da lui firmati – tra cui l’indimenticabile esordio “Fumo di Londra”, ancora un David di Donatello, accompagnato dal brano musicale “You never told me”, scritto dallo stesso Sordi, Robert Mellin e Piero Piccioni e cantato dall’inglese Julie Rogers – ne caratterizzano il doppio ruolo di attore-regista. Ma il regista è inferiore all’attore, per quanto l’attore riesca sempre a salvare il regista (se stesso) o i tanti che lo hanno diretto o hanno cercato di farlo, anche quando il prodotto finale non è all’altezza dell’interprete, non raramente sovraneggiante sull’attonito regista. Nella sua non scarna filmografia da regista-attore – a dimostrazione dell’attenzione verso il rapido cambiamento della realtà circostante – emergono alcune tematiche fetish: la crisi della coppia (“Amore mio aiutami”, “Le coppie”, Io so che tu sai che io so”, “Io e Caterina”), la fragilità e l’ipocrisia della morale corrente (“Il comune senso del pudore”, in quattro episodi, uno interpretato da lui stesso nei panni d’un monsignore che seduce una ragazza in ascensore, quindi “Finché c’è guerra c’è speranza”, “Scusi, lei è favorevole o contrario?”), l’esterofilia (“Fumo di Londra”), la condizione degli italiani all’estero (“Bello, onesto, emigrato in Australi sposerebbe compaesana illibata”, che finisce con lo sposare una prostituta), la vecchiaia (“Una botta di vita”, “Nestore, l’ultima corsa”). Tra i più prestigiosi riconoscimenti il Leone d’Oro alla carriera (Venezia 1994 e il David di Donatello alla carriera (1999), la Legion d’Onore a Cannes (1993), una rassegna monografica di 24 film a Los Angeles (Hollywood) e San Francisco. Nel 1999 l’Accademia dei Filodrammatici di Milano che nel 1937 lo aveva scartato come allievo (perché “lei dice guera e non guerra”) gli consegna (scusandosi) il Diploma honoris causa. Rimane scapolo, per tutta la vita “perché – dice – non mi posso portare un’estranea in casa”, protetto e proteggendo maniacalmente la sua vita privata.
Tuttavia oggi, dopo il lutto nazionale provocato dalla morte dell’uomo – l’artista è destinato alla “grande immortalità” – ci si accorge come incredibilmente una parte del catalogo dei suoi film (almeno 40) non esiste più. I negativi di “Un americano a Roma”, “Lo scocciatore”, “Le signorine della villa accanto” sono andati perduti; “Via Padova 46” è introvabile e la pellicola di “Due notti con Cleopatra” sembra in condizioni pressoché irrecuperabili. Un dato forse ottimistico visto che in base a stime credibili circa l’80% dei film del secolo dell’immagine, il ‘900, è andato distrutto. Un problema epocale, gigantesco, quello della conservazione del patrimonio filmico, forse ora definitivamente risolto dalle nuove tecnologie (DVD, blue-rey) che non solo hanno enormemente ridotto i costi dei supporti, ma altresì permetterà di conservare migliaia di opere in spazi estremamente ridotti. Ma con oltre il 70% di opere salvate Sordi potrebbe essere un privilegiato, in confronto ad altri attori o autori dei quali più nulla è rimasto. Anche quel faccione sorridente sopravvivrà, dunque, più degli altri nella memoria collettiva del paese, trasfigurato come Totò in santino, in maschera “eterna” della commedia all’italiana. “Albertone”, icona nazionale, il solo (come ebbi modo di dirgli personalmente) – tra i cinque colonnelli della risata del cinema italiano (Gassman, Manfredi, Tognazzi, Vitti) – ad aver conquistato sul campo i galloni di generale, perché – come lui stesso diceva – “Quanno se scherza bisogna esse seri”.
[1] Enrico Giacovelli, Breve storia del cinema comico In Italia, Lindau, Torino, 2002.
[2] R.Zangrandi, op. cit.. p. 405.
[3] Vitaliano Brancati è morto prematuramente a Torino nel 1954 a seguito d’un intervento chirurgico.