Basta una piccola macchia d’unto per scivolare fuori dalla vita. Mettere il piede in fallo, mancare un passo, e ritrovarsi in mare aperto con una sola necessità in corpo: imparare a sperare. Henry Preston Standish, il protagonista di “Gentiluomo in mare” (Adelphi, 2023, 153 pp.) è un uomo noioso, comune, “scialbo come una tela grigia”. Una moglie che lo ama, due figli piccoli che adora “di un amore orgoglioso e malinconico”, un lavoro fortunato come broker finanziario alla Borsa di New York e un appartamento vicino a Central Park. Vestiti impeccabili e pensieri ineccepibili. Vive, ogni giorno, cercando di non vergognarsi mai di niente.
Una routine che all’improvviso si spezza e dentro Standish qualcosa si rompe. “Il rifiuto di tutto” spiegherà a sé stesso, più tardi, mentre galleggiando nell’oceano osserverà il tramonto accendersi e la nave, l’Arabella, di cui era passeggero, allontanarsi.
Standish è un uomo solo, incompleto, incastrato e incastonato in una bolla di perfezione che, scoppiando improvvisamente, lo conduce a una fine imprevista, quasi sadica, densa di humour nero. Un epilogo, il suo, tra riflessioni e battute fuori tempo, fuori sincro. Essere educati, osservare il decoro, non alzare mai la voce: le qualità di Standish sono apprezzate in una società come quella degli anni ’30 del secolo scorso ma totalmente inutili quando l’unica necessità di un uomo è la sopravvivenza. Standish non urla nemmeno quando cade in mare. La voce si strozza in gola, le mani restano inermi. Per un uomo come lui chi non ha mai fatto del male non può, di sicuro, soccombere per un destino immeritato e ingiusto. “Dio dovrebbe vergognarsi per aver permesso una tale iniquità”, si ritroverà a pensare. E non sarà l’unica meditazione che, nel corso delle ore, tra il nuotare e il restare “morto a galla”, si ritroverà a fare. Vita, morte, futuro, relazioni. Tutto affiora per poi riaffondare nelle viscere della sua mente. Sempre provando a sperare. Sempre avendo fiducia. Sempre chiudendo fuori dalla mente quella che, invece, è la fragilità e l’ineluttabilità della vita. Quell’imbarcazione, pensa Standish, in fondo, tornerà indietro a prenderlo; le persone si accorgeranno che è sparito; le luci, anche di notte, lo individueranno. Tutto, allora, diventerà un racconto su cui ridere, un articolo da pubblicare su un giornale, un aneddoto da tirare fuori ogni volta che l’occasione sembrerà propizia.
Il lettore di “Gentiluomo in mare” non può che seguire questa parabola discendente, in cui l’ironia si trasforma in malinconia, la fiducia in paura. Imparare a sperare, allora, non è semplice neanche per chi legge: è un esercizio tremendo, a tratti crudele, ma essenziale per continuare a voltare le pagine.
Marco Rossari, il curatore dell’edizione di Adelphi, racconta alla fine del libro l’esistenza sfortunata dell’autore, Herbert Clyde Lewis, figlio d’immigrati russi in America, che voleva vivere di scrittura e mai ci riuscirà. Tra brevi acuti, orizzonti ingannevoli e una morte prematura, resterà “a mollo” per troppo tempo. Nel racconto, Lewis ha più di un moto di affetto per il suo ‘gentleman’. Sembra quasi provare un’amara tenerezza sapendo che la rotta non si potrà cambiare. Ed è come se, anche se lo avesse voluto, con la penna tra le dita, non avrebbe potuto fare nulla per lui. E forse neanche per sé stesso. Standish, scrive, “guardò il cielo che era grande quanto il coraggio di un uomo mentre il mare si estendeva più vasto delle sue speranze”.
Inversa sorte avrà questo libriccino: sepolto vivo dalle acque del tempo riemerge prepotentemente oggi, salvato, lui sì, dalle onde di un mare, quello letterario, placido ma altrettanto micidiale. “Il mondo aveva bisogno di quella storia” pensa a un certo punto Standish mentre l’acqua lo circonda. E, come ricorda Rossari nella postfazione, il mondo ne ha davvero bisogno. oggi, probabilmente, molto più di allora. (AGI)