Una ricostruzione storica che mette in luce il ruolo ambiguo di Pietro Badoglio, delle alte gerarchie militari e della stessa monarchia, il cui atteggiamento diede alla cacciata di Mussolini un’evitabile forma golpista, aprendo la strada, drammaticamente, ad una fase caotica e contraddittoria, i “45 giorni di Badoglio”, dal 25 luglio all’8 settembre
di Augusto Lucchese
Sono trascorsi 79 anni da quel 25 luglio 1943 quando sull’Italia, già stremata per i disagi, le sofferenze, le privazioni, le ferali e distruttive incursioni aeree nemiche, oltre che militarmente provata per l’avverso svolgimento di tragiche vicende belliche, s’abbatté il “colpo di stato” ordito dall’entourage di Vittorio Emanuele III con il preciso intendimento di “fare fuori” Mussolini e il fascismo.
Pur non avendo neppure lontanamente la velleità di esprimere soggettive opinioni e tantomeno personali giudizi sugli accadimenti di quei giorni, non sembra fuor di luogo, tuttavia, rinverdire la sequenza cronologica degli stessi. Trattasi, peraltro, di avvenimenti ormai da tempo acclarati e posti in evidenza da una miriade di testi, di documentari, di documenti tratti dagli archivi di Stato. Ognuno, alla fine, potrà trarne le conclusioni che vuole o che pensa o meno di condividere.
Ciò non impedisce, però, di affermare un principio di vitale importanza: rifiutare a priori la “conoscenza” di fatti e circostanze della storia, ancorché sgraditi per preconcetta avversione agli stessi, pur se esposti in base al solo loro reale svolgimento, senza distorsioni di parte, è come relegarsi nel limbo della mediocrità.
Ecco una sintetica ricostruzione dei fatti accaduti in quei giorni.
L’arresto di Mussolini
Già il 22 luglio il Gen.le Ambrosio (Capo di Stato Maggiore Generale delle FF.AA.) aveva preso contatto col segretario del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, affinché informasse il Maresciallo che, in previsione della riunione del 24 o 25 luglio del Gran Consiglio del Fascismo che “sicuramente avrebbe fatto fuori Mussolini”, era opportuno che si “tenesse pronto”.
Va ricordato che Badoglio era stato estromesso da ogni comando dopo la bruciante disavventura militare italiana in Grecia (ottobre 1940) e in atto era relegato – si fa per dire – nella sontuosa villa di Via Bruxselles, donatagli dal P.N.F. (partito nazionale fascista) in occasione del suo “trionfale” ritorno dalla guerra d’Etiopia, svoltasi dal 3 ottobre 1935 al 5 maggio del 1936.
Badoglio, appresa la notizia, la comunica ai familiari e ordina di portare su dalla cantina, nella quale si dice fossero conservati oltre 5 mila pezzi di rinomati vini “da collezione”, una bottiglia di “veuve Cliquot” (pregiato vino francese) da porre in ghiacciaia e da tenere pronta per brindare alla sperata fine di Mussolini.
Da più parti è stato evidenziato che tale comportamento altro non era che una chiara dimostrazione dell’intervenuto profondo rancore da lui nutrito verso il Duce dopo che quest’ultimo, nel licenziarlo “per manifesta incapacità”, a sua stessa detta “lo aveva atterrato come un bue”. Sembrava che avesse dimenticato il fatto che, sino al dicembre del ’40, lo aveva sempre osannato, magari adulandolo al fine di ottenere onori, favori e prebende.
È d’uopo aprire, per inciso, una breve parentesi. Si sa che nel corso della convulsa riunione del citato Gran Consiglio del Fascismo, Mussolini ebbe a difendersi dall’accusa di avere “accentrato” in lui anche il potere militare (“cucendosi sulla giubba i galloni di Maresciallo”, come pungentemente affermato da Grandi, promotore dell’ordine del giorno di sfiducia), sostenendo che tale potere (“Comandante Supremo delle Forze Armate”) gli era stato attribuito, per “delega”, dal Re, su suggerimento proprio di Badoglio.
Risulta che Mussolini, a tal proposito, lesse una ossequiosa lettera autografa dell’insigne Maresciallo con la quale lo invitava ad accettare l’incarico. Potrebbe darsi, per come sostenuto da chi all’epoca circolava nell’ambiente dell’Alto Comando, forse tenendo conto dell’ambiguo modo di fare del Supremo Capo militare, che la citata sollecitazione fosse il frutto avvelenato di talune recondite finalità. Prima fra tutte, quella di scrollarsi da dosso, almeno in parte, il peso delle manchevolezze a lui attribuibili nella qualità di incontrastato responsabile di vertice delle FF.AA. Nei lunghi anni del suo incarico (dal maggio 1925 al dicembre del 1940), non aveva saputo rimediare alla evidente impreparazione tecnica delle stesse e non aveva saputo provvedere, a tempo debito, alla stesura di quei validi piani strategici che avrebbero potuto permettere di agire con immediatezza al momento della ormai ineluttabile guerra, utilizzando a dovere l’apparato militare che all’epoca, malgrado tutto, era in posizione di vantaggio strategico e sostanziale rispetto ai presunti nemici, Francia e Inghilterra, in quel momento in palese stato di difficoltà e inferiorità.
Fatta questa precisazione, occorre ricordare che già nelle prime ore del fatidico 25 luglio, fu lo stesso Grandi (come detto, estensore dell’ordine del giorno di sfiducia a Mussolini) ad informare il Sovrano circa l’esito della votazione sul documento in questione, nottetempo approvato dal Gran Consiglio del Fascismo con 19 voti a favore (fra cui il genero di Mussolini, Conte Galeazzo Ciano) e 7 contrari. Tale notizia, ovviamente, fu ritenuta estremamente utile per conferire il crisma di attuabilità ai piani già in essere per porre fuori gioco il capo del fascismo.
È ormai acclarato che il “golpe”, personalmente coordinato dal Re (qualcuno sostiene che fosse stato posto allo studio sin dall’aprile ‘43), era stato congetturato in gran segreto e ne era a conoscenza solo il Duca Acquarone, Ministro della Real Casa. Il Monarca, in merito, s’era avvalso della “segreta adesione” di alcuni alti esponenti dell’apparato militare dell’epoca fra cui il Gen.le Ambrosio (Capo di Stato Maggiore Generale delle FF.AA), il Gen.le Carboni (del S.I.M) e il Gen.le Cerica (dei Carabinieri). Al Gen.le Castellano, nella qualità di aiutante maggiore del Gen.le Ambrosio, era stato conferito l’incarico di approntare “la trappola” in cui fare cadere Mussolini. Sembra che tutto fosse già predisposto sin dal 19 luglio.
Sorgono spontanee, a questo punto, alcune riflessioni: considerato che in quel momento Mussolini era ancora capo del Governo e Comandante Supremo delle FF.AA., come valutare la citata “cospirazione”, se non come un reato di “alto tradimento”? E come definire la condotta dei citati generali se non come “sedizione”? Come giudicare l’operato del Capitano dei Carabinieri Paolo Vigneri se non come “un atto di grave insubordinazione e di sequestro di persona”?
Il Capitano Paolo Vigneri, nativo di Calascibetta (EN), divenne dopo la guerra Notaio in Catania. Nella circostanza dell’arresto di Mussolini fu collaborato dal collega Capitano Raffaele Aversa, dal sottotenente Carmelo Marzano e dai sottufficiali Bertuzzi Domenico, Gianfriglia Romeo e Zenon Sante. A proposito di Vigneri, occorrerebbe analizzare attentamente le circostanze in cui si mosse per adempiere al suo “compito”. Molti vorrebbero che, storicamente parlando, fosse reso chiaro se, nel momento in cui sbarra la strada a Mussolini, all’uscita da Villa Savoia, e lo “costringe” a seguirlo, abbia o meno commesso gravi reati di “abuso di potere”, di “violenza privata” e di “sequestro di persona”, specie perché stava agendo in mancanza di uno specifico “mandato d’arresto” e perché nessuno dei superiori (“congiurati” o non) deteneva il potere di autorizzare formalmente un tale atto di imposizione.
In base alla versione dei fatti, oggi esaurientemente accreditata, anche Ambrosio e gli altri generali congiurati avrebbero potuto essere considerati, in quel frangente, “rei di alto tradimento”, sia perché erano nell’esercizio delle rispettive funzioni e sia perché, quali esponenti della scala gerarchica militare, erano in quel momento alle dirette dipendenze del “Capo Supremo delle Forze Armate”, vedi caso proprio Mussolini. Sembra che solo il Gen.le Cerica (dei “Carabinieri”) abbia avanzato, in materia, qualche timida riserva, affermando: “… siamo o no nel campo costituzionale?”.
Si ritiene altresì che, oltretutto, gli aderenti alla congiura non potevano trarre alcuna valida giustificazione dal fatto che era stato il Re a fornire orientamenti e direttive. Avrebbe dovuto essere ben chiaro a tutti che, nel rispetto dello “Statuto Albertino” vigente, neppure il Sovrano, se non commettendo un atto eversivo e venendo meno al dovere di “tutore” della legalità costituzionale, avrebbe potuto impartire simili ordini.
Sono in molti a chiedersi come mai a fronte di ciò che avvenne in quella turbolenta giornata (un autentico silenzioso colpo di stato) non fu intrapresa alcuna azione da parte delle competenti autorità giudiziarie, militari o civili che fossero, e non fu mai aperta alcuna circostanziata inchiesta riguardante le pur gravi e palesi infrazioni di legge commesse, peraltro penalmente perseguibili d’ufficio.
Sta di fatto che si giunse, non per un fatto occasionale o per una emergenza dell’ultimo momento, bensì nell’ambito di un prestabilito e preciso piano eversivo, a quel pomeriggio di domenica 25 luglio in cui, alle 17 e venti circa, Mussolini, all’uscita da Villa Savoia, dopo l’udienza col Re, viene “fermato”, caricato su una traballante ambulanza e “tradotto” per le vie di Roma alla stregua di un qualsiasi malvivente, sino alla Caserma “Podgora”, da dove sarà poi trasferito all’isola di Ponza. Oggi, osservando i fatti da un punto di vista non preconcetto e non fazioso, si ritiene che a qualsivoglia individuo, responsabile o meno, colpevole o non colpevole, Mussolini o non Mussolini, mai e poi mai si sarebbe dovuto usare un simile medievale trattamento.
Sembra peraltro che ogni cosa fosse stata meticolosamente preordinata, addirittura predisponendo anche gli argomenti che il Sovrano avrebbe esposto nel corso dell’ultimo colloquio con Mussolini, prima che, al termine dell’incontro, scattassero le modalità del suo sostanziale “arresto”.
Non sono pochi coloro che, nella misura in cui il “potente” Duce del fascismo non s’era reso conto del tranello tesogli, malgrado molte avvisaglie avrebbero dovuto allarmare sia lui che il suo “staff”, gli attribuiscono una accentuata dose di ingenuità, escludendo in toto qualsivoglia ipotetica altra considerazione basata sulla presunzione della propria intoccabilità, mista ad un caparbio, pregnante e anacronistico autoritarismo.
Si asserisce che essendo egli convinto di potere contare sulla lealtà del Re, s’era buttato, di fatto, in bocca al lupo, accompagnato solo dal suo segretario, De Cesare, e dall’autista. Non poteva non essere a conoscenza, però, delle trame che si stavano tessendo a suo danno nell’infido ambiente monarchico e militare d’alto livello, che nell’ombra sviluppava già ingannevoli trame, disfattismi di varia natura, occulti contatti con nemiche potenze straniere, subdole asserzioni di un finto “cameratismo” con i tedeschi, buoni o cattivi che fossero ma pur sempre, ufficialmente, alleati.
È ben noto che alla fine di quel burrascoso 25 luglio 1943, i responsabili della cospirazione, per camuffare la triste vicenda e ad uso e consumo del popolo italiano, spiattellarono ai quattro venti una eclatante menzogna. Affermarono che il Re aveva puramente e semplicemente “accettato le dimissioni del Cavaliere Mussolini”. Si sa, viceversa, che Mussolini non era andato in udienza dal Re per presentare le “dimissioni”, bensì per conferire in merito alla votazione del Gran Consiglio del Fascismo pur se esso, sostanzialmente, era tutt’altro che un organo istituzionale.
È risaputo, di contro, che il regio decreto di nomina del successore Pietro Badoglio (scelto a seguito della onesta rinuncia di Paolo Thaon di Revel e di Enrico Caviglia), era stato già predisposto, redatto e firmato sin dal mattino. Appena un’ora dopo l’arresto di Mussolini, il citato nuovo “Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato”, preventivamente avvisato, giunge a Villa Savoia per prendere atto della sua nomina e per discutere con il Re circa le relative modalità.
Chi ha vissuto quei momenti o chi ne ha avuto conoscenza attraverso una successiva ben circostanziata cronaca, sa che da lì a poco, essendo all’incirca le ore alle 22,45 fu data la notizia dell’avvenuto sommovimento tellurico istituzionale. Il noto “speaker” dell’E.I.A.R., Giambattista Arista, leggerà alla radio, con voce afona e anonima, il comunicato del Quirinale e i proclami del Re e di Badoglio, ambedue stilati in anticipo, si dice, in compartecipazione con il venerando ex Presidente V. E. Orlando.
La radio interruppe le trasmissioni per diffondere il seguente comunicato: “Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato, di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato Capo del Governo, Primo ministro, Segretario di Stato, sua Eccellenza il Cavaliere, Maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio.”
Fu data poi lettura dei proclami del Re e di Badoglio. Sembrerebbe che, forse per non destare allarme in campo tedesco, in quello di quest’ultimo fosse stata inserita a bella posta la frase finale che asseriva “la guerra continua. L’Italia duramente colpita nelle sue Provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni”. L’infelice frase diverrà poi, oltre che simbolo dell’ambiguo atteggiamento dei Capi di casa nostra, l’appiglio giustificativo della nomea di “traditori” che Hitler e la sua nefasta cerchia appiopperanno agli italiani e che genereranno ingiuste ritorsioni, inumane deportazioni, indiscriminate condanne, crudeli massacri.
Chissà se al suo rientro a casa, il graziato e riabilitato Maresciallo, avrà realmente stappato, finalmente, la famosa bottiglia di “veuve Cliquot”, per brindare alla sconfitta di Mussolini, a parte la legalità o meno della vicenda e a prescindere dalla colpevolezza o meno dello stesso.
Avranno inizio, in tal modo, “gli ambigui 45 giorni di Badoglio” che tante ulteriori sofferenze porteranno alla Nazione, influendo parecchio anche nei vari settori di guerra. I “45 giorni di Badoglio” vanno dal 25 luglio all’ 8 settembre 1943 quando assieme a molti componenti della Casa Reale e ad un codazzo di seguaci più o meno onorati abbandonò Roma, si avventurò verso Ortona e si imbarcò per Brindisi ove formò il tisico Governo del “Regno del Sud”, strumentalmente riconosciuto dagli Alleati e che sino al giugno del ’44 ebbe una vita abbastanza grama.