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Peter Brook, il “giramondo” del teatro che detestava gli adulatori

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Il regista de “Il signore delle mosche”. “Moderato”, “Re Lear”, “Incontri con uomini straordinari”, se ne va in armonia con se stesso, indifferente al chiasso.. Ci lascia il nutrimento di quel “teatro necessario” che, così come la vita di ciascuno, cambia ritmo e respiro, dando sino alla fine “filo da torcere”

di Angelo Pizzuto

Quando sarà il momento (quando?) di tirare le somme di ciò che “è stato, non è stato, avrebbe potuto essere il Teatro del Novecento”, quello del ‘pensiero debole’ e del ‘breve respiro’, ovvero della ben diffusa disponibilità dei suoi artefici a non assolutizzare la propria opera, le proprie regie (diffidando quindi dei dogmatici, degli accademici e degli onanisti\risucchiatori di cervelli)….quando decideremo che “sarà” o che probabilmente “vi è già stato”, il nome di Peter Brook, regista di teatro (e di cinema) occuperà il posto che –se fossimo in ambiente ecclesiale- starebbe ai vertici dell’arte certosina e della “non spettacolarità” come dato di partenza delle sue idee, opinioni, scelte operative. Sottinteso: non mancheranno i nomi di Peter Stein, Luca Ronconi,Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Antonin Artaud, il Living (e di tutti quelli che, involontariamente, sto omettendo). Lasciando però a Brook il merito – e la singolarità – di non avere mai preteso di “fare scuola”, di “essere un teorico” di ciò che fortunatamente non è teorizzabile una volta per tutte, cristallizzato in una “unica fede” che sarebbe nociva per noi tutti.

Donde la necessità di un teatro come bisogno di “ricerca”, “meditazione”, coscienza collettiva (aperta ad ogni dubbio e contributo), avverso ad ogni estetica dell’esibizionismo, della spettacolarità fine a se stessa, quindi proselita  della “concentrazione” che solo un determinato spazio scenico (raccolto, circolare, come simposio e cavea per un pubblico complice, raccolto, non di élite) può fertilizzare. Irrorato dalla fermezza della parola, dalla frugalità del gesto, da quel particolare sentimento di Epicità che solo Brook sapeva infondere ad ogni sua esperienza, anche la più frugale o di breve durata, come il sussultoreo  monologo da Dostoewskij “Leggenda del Grande Inquisitore” (ovvero Cristo Gesù, il Nazareno dei laici)

Da giramondo vocazionale “passando da Londra a Parigi, Brook ha segnato la strada per centinaia di attori e aperto gli occhi a migliaia di spettatori, che potevano apprezzare un teatro diverso, mobile, aperto, semplice ma non improvvisato, lineare ed essenziale ma mai povero” (annota una autrice indipendente, Giulia Mozzato, su una pagina facebook). Ineccepibile.

Passando anche per la ricerca di una lingua teatrale primigenia, ma non definitiva, fatta di suoni ed elementari pantomimiche.

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Già a vent’anni Brook dirige già il suo primo Shakespeare debuttando in un teatro Stratford-on-Avon (“Romeo e Giulietta”, prodotto dalla Royal Company), e scatenando violente reazionu della critica codina per avere ambientato la tragedia“in una arena arancione illuminata da nude luci bianche” -e francescana sobrietà di costumi.   Sue regie di esordio erano già state il “Faust” di Marlowe e “La macchina infernale” ostinatamente volute (concepite) in una Inghilterra ancora squassata dai bombardamenti nazisti (“anch’io ho vissuto le mie ore più dure”). Ma lasciando che fosse il Bardo a fargli da mentore per almeno vent’anni. Così annoverando storiche, magmatiche edizioni di “Pene d’amor perdute” (1946), “Misura per misura” (1950), “Sogno di una notte di mezza estate” (1970), “Timone d’Atene”, “Antonio e Cleopatra”, passando anche per un magnifico “Tito Andronico” interpretato da Laurence Olivier e “Re Lear” protagonista Paul Scofield. Poi memorizzando le proprie esperienze in una sorta di diario ‘in pubblico ’ (“Il teatro e il suo spazio” edito nel 1969, raccogliendo ‘materiali’ scritti in trent’anni), che – fra tanto altro-  riportano alla memoria una sua “Salomè” di Wilde (con scenografie di Dalì) rappresentata in sordina nel 1949.

Oscillando fra “il rozzo e il sacro” (nell’accezione di una spiritualità non confessionale), Peter Brook, dagli anni sessanta in poi, svilupperà un personale, non epigono rapporto con il “teatro della crudeltà” (teorizzato da Artaud), lasciando la sua impronta indelebile in almeno due casi: “Marat-Sade” di  Weiss e “US”, docu.dramma antesignano del genere dedicato alla guerra in Vietnam non solo come atto d’accusa (di interessi capital-geopolitici), ma vero e proprio spartiacque della Storia successiva al secondo conflitto, il cui valore profetico si innalza oggi –e deflagra- con le tragedie d’Ucraina.

Dando nerbo al suo dissenso e alle sue doti poliglotte il regista insediò il suo gruppo a Parigi, alla testa di un ‘carro’ di attori di più nazioni, e la definitiva sostituzione dell’ nativo ma non ancestrale   (i genitori di Peter erano ebrei russi) con un francese accentato, neutro, “immaginato, secondo la tradizione ellenica, come la nuova koiné dell’Europa artistica”.

La sperimentazione di Brook si sviluppa comunque fuori dalla Gran Bretagna. Unico confine: il pianeta terra. Ad iniziare da “Orghast” (1971) concepito e realizzato in Iran con venticinque attori di dieci nazionalità, cui fanno  seguito “Ubu” di Jarry  “Il congresso degli uccelli (fra Aristofane e un antico poema sufi), “L’osso” rivisitazione di una antica fiaba africana.

Dal 1970, Brook dirige a Parigi il Centro di Creatività Teatrale eleggendo le Buffets du  Nord a sua casa e rifugio. In quest’ambito annovereremo “Carmen” del 1981) e la cosmogonia del “Mahabharata” (reperibile in versione cinematografica, con nostra, personale segnalazione del compianto Vittorio Mezzogiorno), che il regista considerava “la Bibbia della cultura, della civiltà orientale (in senso lato), “fissato” in un collettivo ritiro di nove ore di rappresentazione (Ronconi e Stein lo consideravano il loro “pioniere”).

Scelte viscerali e di ingente apertura mentale che stuzzicarono alcuni critici americani (ad es. Kenneth Tynan) a stroncature del tipo “perché quest’uomo di immenso talento non la smette di cimentarsi con i massimi sistemi filosofici e far teatro come qualsiasi altro regista inglese del suo livello?” (livellante). Facendogli eco Eric Bentley “si rende conto o no, Peter Brook, di farsi strumentalizzare politicamente, con la scusa della vocazione mistica?” (intollerante, ideologicamente manicheo).

Indifferente al chiasso, il regista proseguì per la sua strada intensificando le sue escursioni cinematografiche “Il signore delle mosche” da Golding, “Moderato dalla Duras, “Re Lear” spoglio di convenzioni ‘autoriali’, “Incontri con uomini straordinari” da G. I. Gurdjieff).

Brook se ne va in armonia con se stesso (azzardo?) ed il nutrimento di quel “teatro necessario” che, così come la vita di ciascuno, cambia ritmo e respiro dando sino alla fine “filo da torcere”. Lo ripeteva spesso anche Orazio Costa fra i suoi massimi esegeti italiani.