AGI – “Sequestrato, legato e torturato in uno scantinato per tre giorni perché pensavano fossi una spia di qualche nazione occidentale dopo aver pubblicato un articolo in cui riferivo di un milione di mascherine che sarebbero dovute arrivare in Italia ma non sono mai state consegnate”.
Pavel Broska è un giornalista russo di 39 anni che da pochi giorni è scappato dal suo Paese con la moglie e la figlia in provincia di Brescia dove chiederà l’asilo politico.
“Sono venuto in Italia perché questo paese è sicuro e c’è libertà di parola. Qui c’è un mio amico, il presidente delle Camere Penali Internazionali, l’avvocato Alexandro Maria Tirelli” racconta in un’intervista all’AGI in cui spiega come sia maturata la volontà di fuga e le violenze subite in questi anni da dissidente.
“In Russia ho iniziato a lavorare come giornalista alla radio presentando un programma sulle corse automobilistiche. Nel 2014 sono stato corrispondente di guerra ma quel lavoro mi è stato tolto perché ho scritto solo quello che vedevo coi miei occhi. Allora ho creato la mia stazione radio a Donetsk per trasmettere la verità alla gente, ma mi è stato proibito anche quello”.
Broska dice di avere poi asssunto l’incarico di caporedattore del canale ‘Crimea 24’ ma di avere dovuto lasciare anche questo incarico per non essere stato addomesticabile. E qui si arriva al capitolo più cruento della sia storia che coinvolge anche l’Italia.
“Dopo aver scritto che un milione di mascherine promesse all’Italia dal direttore del Centro di cultura e lingua Italiana di Sebastopoli, il mio capo mi ha chiamato e mi ha chiesto di rimuovere l’articolo perché dei ‘grossi papaveri’ erano coinvolti in questa vicenda. Mi sono rifiutato. Poi sono stato licenziato e dopo un po’ sono stato sequestrato fuori da casa mia per essere interrogato. Per tre giorni sono stato legato in uno scantinato a dieci gradi mentre mi gettavano addosso acqua fredda e calda a intermittenza”. Sul perché il carico umanitario non sia arrivato in Italia, le sue ricerche gli hanno fatto maturare un’idea precisa: “E’ stata un’ operazione di disinformazione creata dal Cremlino attraverso alcuni apparati di intelligence in Crimea. Anche le Camere Penali Internazionali, alle quali devo di avermi salvato la vita aiutandomi a venire in Italia , si occuparono della storia, mentre conducevo la mia indagine giornalistica”.
Sullo stato dell’informazione in Russia, Brovska osserva che “la censura c’è sempre stata, ma non così dura. Ora siamo quasi al livello del regime sovietico. Adesso in Russia essere cronista significa scrivere e dire quello che ti viene detto, non quello che vedi”.
Mantiene una speranza viva per il futuro nella durezza delle preoccupazioni : “ Non ho paura per me stesso, ma per la mia famiglia. In Italia, voglio creare un sito per i residenti di lingua russa in Europa e, soprattutto, per far arrivare ai cittadini russi attraverso il web una voce libera, un’ analisi critica e il racconto della verità”.
Source: agi