AGI – Non è dato ai papi stabilire le gerarchie tra i santi. Ma avere le loro personali simpatie, quello sì. Allora non c’è da dubitare che Francesco un occhio di riguardo lo abbia, per quel briccone gaudente andato a vivere nel deserto per spiegare ai suoi simili che stare tutti insieme, da fratelli, è la cosa più bella del mondo. Anzi, l’unica cosa possibile al mondo.
Tanto che a Charles de Foucauld il Papa dedica le ultime righe della sua ultima enciclica, quella in cui chiede al mondo di riscoprire il valore della fratellanza universale. Per non dire che domenica lo eleverà alla gloria degli altari, santo tra i santi, in compagnia di altri nove santi esattamente come lui. Ma – senza voler togliere nulla a nessuno – è quello di Foucauld il nome che tutti ricordano.
Sarà perché piaceva molto a Don Primo Mazzolari, che arò il terreno del Concilio, sarà perché la Francia adesso sembra aver bisogno più che mai di far pace tra le sue anime profonde, ma Bergoglio canonizza colui che ha voluto giustapporre al meglio della storia di quel secolo sanguinario che fu il Novecento.
Ecco cosa scrisse, ed ecco perché domani Carlo il Testimone domani sarà santo. “In questo spazio di riflessione sulla fraternità universale” spiega il Papa nella sua summa teologica della Fraternità, “mi sono sentito motivato specialmente da San Francesco d’Assisi, e anche da altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri. Ma voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al Beato Charles de Foucauld”. Cioè colui che, voce di uomo che parla dal deserto più deserto, “voleva essere, in definitiva, il fratello universale”.
E sì che veniva, Charles del Deserto, dal cuore dell’Europa pronta a scannarsi: era nato infatti a Strasburgo, nell’Alsazia contesa di fine Ottocento. L’ambiente ideale per crescere nazionalisti e sovranisti, aspiranti padroni in casa propria e magari anche in quella degli altri. Lui, poi, era persino nobile: visconte di Pontbriand. Napoleone a Sedan lo colse dodicenne, educato da un nonno persino troppo permissivo. Appena raggiunti i requisiti anagrafici richiesti il viscontino entra, a Parigi, nell’accademia militare di Saint-Cyr: scuola di guerra e di rivalsa.
Divenne in un men che non si dica perfetto ufficiale e gentiluomo: vale a dire giocatore, sbeffeggiatore, financo bordellatore. Fuggitore rapido dal vero e altrettanto lesto inseguitore del vizio. Avventuroso: lascia il mestiere delle armi per quello dell’esplorazione, in un periodo in cui i militari seguivano le piste aperte in Africa dagli amanti dell’ignoto e dai loro battitori.
C’era la corsa al Continente Nero: inevitabile il cozzo tra le rispettive carovane delle potenze coloniali in quel di Fashoda. Lui aveva fatto a tempo, per quel giorno, a rimediare la medaglia d’oro della Società Francese di Geografia per meriti sul campo, e questa non era l’unica novità. Premiato dai geografi, si era messo infatti a coltivare l’arabo e l’ebraico. Inevitabile la lettura del Corano, che egli prese ad alternare con quella del Bossuet.
Dal primo restò colpito, e dal suo poter creare “anime viventi alla continua presenza di Dio”; dal secondo trasse spiritualità e identità, essendo il Bossuet forte nella fede ma anche nella sua difesa. Il cambiamento giunse non inaspettato, anche se non si trattò certo di un cammino liscio come l’olio. Al contrario: di notti dell’Innominato ce ne sarà stata più di una.
Nel 1890 entra fra i trappisti in Francia, ma ben presto chiede di ritirarsi in una trappa molto più povera in Siria. Va a Nazareth, poi ritorna, poi la Trappa non basta più nemmeno nella sua versione più severa. Viene ordinato prete, parte per l’Africa algerina, nel cuore del Sahara e se Paolo ad Atene girava per la città per capirne l’anima profonda, e poterle parlare chiaramente, Charles del Deserto medita in un eremo e impara la lingua dei Tuareg. La impara così bene che il suo vocabolario è ancora adesso adottato come strumento ufficiale di traduzione.
Chi passa lungo le vie carovaniere non viene mai cacciato: la porta è sempre aperta. Poco distante (se di poca distanza si può parlare) il deserto è attraversato dal tracciato del sale che porta a Timbuktu.
Una strada percorsa da ebrei e cristiani, ma soprattutto musulmani. Mercanti di tessuti, traffici di schiavi. Il primo Charles riesce a renderlo libero dopo appena pochi mesi di permanenza. Per 13 anni vive tra quelle sabbie sottili e insidiose, dove uomini di passaggio chiedono ospitalità e uomini vestiti di blu imparano ad apprezzare quel francese vestito di bianco, con un cuore ed una croce cuciti sulla tonaca. Lo apprezzano anche troppo: che ci fa uno come lui, in mezzo a quella miseria? Deve avere qualcosa da nascondere. Sì, è un tesoro.
È così che un gruppo di briganti senussi, una notte, si presenta al rifugio per tentare il rapimento a scopo di riscatto. Ma arriva un fante, mandato da tempo a vigilare. Parte un colpo, Charles trova la sua pallottola. Ma non è una pallottola: è Dio che lo chiama. Da allora il suo corpo è sempre lì, nel deserto algerino, a ricordarci come i monaci di Tibhirine che si è fratelli. Tutti. E’ l’unica soluzione possibile.
Source: agi