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La Mielemedicina di Anastasio, contro il logorìo della vita (e la musica) moderna

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AGI – La storia di Anastasio parte durante  stagione 2018/19 da X-Factor, in un’edizione che stravince a mani basse, senza che ci sia mai stato alcun dubbio. Le sue barre dalla metrica e dall’intensità sofisticate inserite in un contesto di cantautorato altissimo, questa la strategia utilizzata con lui da Mara Maionchi, hanno letteralmente entusiasmato il pubblico di Sky.

Il 7 febbraio 2020, subito dopo un esordio non felicissimo a Sanremo (ingiustamente relegata in 13esima posizione la bella “Rosso di rabbia) esce “Atto zero”, il suo primo vero album, accolto bene da pubblico e critica, ma fuori con una tempistica involontariamente sbagliata, come sappiamo infatti di lì a poco il mondo sarà investito da una pandemia che colpirà in modo particolare il mondo della musica.

Anastasio, che è il suo cognome, di nome fa Marco, classe 1997, nato a Meta, nemmeno 10 mila abitanti in provincia di Napoli, è tornato la scorsa settimana con “Mielemedicina”, questo disco straordinario che altro non fa che confermarci la straordinarietà di Anastasio come artista, a conferma del fatto che dai talent, nonostante un certo pregiudizio di base (alle volte non campato in aria eh), in particolare quello targato Sky, non è che escano solo personaggini usa e getta.

Anastasio si conferma un artista unico nel suo genere, anzi nel suo non genere, che non è un modo come un altro per dire che è bravo, è proprio che lui è l’unico a fare quello che fa. Non è un rapper della generazione tutta droga e donnine da maltrattare, non è un rapper affine ai cosiddetti “conscious”, non punta il focus su temi strettamente sociali; non è nemmeno musicalmente collocabile dentro una scena, dentro questo “Mielemedicina” troviamo tanto cantato, tanto suonato, produzioni ottimamente fatte ma che non rubano mai la scena come ormai siamo abituati a sentire nell’urban contemporaneo.

Anastasio è un intellettuale vero e lo è con una semplicità quasi stralunata, come se fosse normale in un’epoca di pressapochismo assoluto costruire brani nei quali sgomitano citazioni alte, nei quali si traduce in musica l’angoscia personale e quella dell’uomo moderno come in “Assurdo”, che è un brano che davvero ti pizzica il cuore; brani nei quali ci si confronta face to face con il creato, come “Babele” o “Simbolismo”, oppure “Tubature”, una canzone nella quale Anastasio riesce ad incastrare nelle sue metriche al centimetro il pianoforte di Stefano Bollani.

O “Magari”, un altro pezzo straordinario, in cui viene citato e rimaneggiato il poeta Massimo Ferretti (roba del tipo “La carezza sognata è un miracolo azzurro, quella vuota è solo un vento di mano”, per intenderci). Ora, che questo intellettualismo alla fine risulti poco vendibile, ok, lo possiamo anche capire, anzi, da utenti proprio ci abbiamo fatto il callo e sappiamo che succede perché in qualche punto della storia, sospettiamo intorno alla metà degli ’80 del secolo scorso, qualcuno, evidentemente, ha fatto girare voce che intellettuale sia sinonimo di noioso; improvvisamente, dopo aver contribuito al successo di una generazione di cantautori impegnati, siamo diventati un paese in cui il cazzeggiamento, l’intrattenimento fine a se stesso, il disimpegno, sono irrinunciabili priorità.

No. È inaccettabile. Anastasio ci propone il lato più bello, alle volte, lo ammettiamo, dolorosamente bello, della nostra umanità, della nostra coscienza, di tutto quel groviglio di mondi che si intrecciano dentro di noi. E in quella bellezza, si, così complessa, così difficile, noi ci rispecchiamo. Un lavoro veramente eccellente, non per tutti ma che a tutti servirebbe; e chi crede il contrario e preferisce perdersi in un vuoto reggeaton, faccia pure, poi però ci dispensi dalle celebrazioni social dei Dalla e dei Battiato, false come monete da 3 euro, quando siamo un paese che non sa prendersi cura dei propri artisti quando vanno oltre quel mortificante “ci fanno tanto divertire”, come se l’arte non fosse nutrimento dell’anima o, se proprio vogliamo fare i pragmatici, un lavoro, ma una barzelletta di Martufello.

Nel disco alterni le angosce tue a quelle dell’uomo, penso ad “Assurdo” e penso a “Babele”.

“Me lo fai notare tu, non ci avevo fatto caso, non è voluta questa alternanza di angosce (e ride). A me piace un po’ di tutto, mi piace parlare di me e mi piace parlare dell’uomo, quindi sono questi i due temi: io e l’umanità. Quindi ci sta che noti questa cosa”.

Torna spesso il pensiero su Dio, in “Babele” ma soprattutto in “Simbolismo”, qual è il tuo rapporto con il sacro, con la spiritualità…?

“Per me il tema di Dio nelle canzoni è importante, perché mi permette di utilizzare un linguaggio particolare, molto suggestivo, molto evocativo, un linguaggio antico. In “Babele” mi diverto ad utilizzare un linguaggio biblico; in realtà non solo mi diverto ma lo trovo particolarmente efficace, perché queste parole antiche parlano al sangue, parlano a qualcosa di antico dentro di noi. Il mio rapporto personale con la spiritualità è difficilmente definibile, però c’è, è un tema importante, mi piace molto leggere di spiritualità, mi piace molto indagarlo, mi interessa molto il tema delle religioni e in generale l’esoterismo. Sono tematiche che mi affascinano molto, anche perché la storia della religione e della magia è un po’ la storia dell’uomo”.

In “Tubature” rappi sul jazz di Stefano Bollani…

“Sì, ci siamo conosciuti, io e il buon Bollani, perché mi ha invitato ospite nella sua trasmissione e questa cosa è nata abbastanza spontaneamente; lui si è preso subito bene ed io anche di più. Era da molto che volevo fare un pezzo jazz/rap, l’avevo sentito fare agli americani, mi è piaciuto molto l’esperimento e ho pensato sarebbe stato possibile declinarlo in italiano e così è stato. Sono soddisfatto anche perché non era semplice la riuscita, si capisce ascoltandolo che è un brano dal tasso di difficoltà elevato, era facile fare una cag….a, anche perché sai, stai rappando sul jazz, quindi il confine tra una s…a mentale e qualcosa di ascoltabile è molto sottile”.

Nel brano dici “Non c’è soluzione per quelli come te”…c’è sempre un po’ di severità nel tuo sguardo sul mondo, la stessa che usi su te stesso tra l’altro.

“Sì, sono severo nei giudizi col mondo e con me, sicuramente. Ma in quel verso nello specifico non volevo essere severo, volevo semplicemente dire con ironia che in questo groviglio di tubature quelli come me difficilmente si orienteranno sempre”.

Ci racconti “Magari”?

““Magari” è un pezzo a cui voglio bene ed è un omaggio ad un poeta che si chiama Massimo Ferretti. La lettura di Massimo Ferretti mi ha sbloccato un po’ la poesia, e dalle letture poetiche seguenti e Ferretti è nato un po’ lo stile con cui ho scritto tutto l’album. Ho anche trafugato qualche pezzo da Ferretti stesso, “La carezza sognata è un miracolo azzurro, quella vuota è solo un vento di mano”, è una parafrasi di Ferretti. Ho anche avuto modo di parlare con suo figlio, Fosco Ferretti, ho avuto l’esigenza di parlargli ed è stato molto bello conoscerci e confrontarci; e soprattutto vedere che a lui, che comunque siamo di due generazioni diverse, questa roba arrivava molto ed era lusingato che volessi omaggiare così il padre. È un pezzo dolce, melodico, al quale sono particolarmente legato e ne sono particolarmente soddisfatto, anche perché è un pezzo nudo, un pezzo in cui mi sono messo molto in gioco, sia musicalmente che nel testo”.

Ne “L’impero che muore” dici “Se le parole non sparano più, il silenzio diventa pesante”…mentre stiamo in ansia per una potenziale guerra mondiale, pensi che le parole possano ancora incidere nelle nostre vite?

“Sempre meno. Sempre meno, sempre meno, sempre meno. Le parole sono sempre più dei giocattoli rotti, sono sempre più palloncini sgonfi, perché ce ne sono troppe in giro e ognuno parla la sua lingua. Ormai parliamo una lingua per uno, le parole si sono troppo confuse tra loro, troppo confuse con la realtà, ne parlo anche in “Babele”, oggi secondo me le parole bisogna essere proprio dei maghi per parlarne bene. Le parole sono una forma di magia per me, il linguaggio è magia, è capace di creare dal niente, questa è la definizione di magia. E oggi le formule purtroppo sono tutte usurate”.

Non c’è la pandemia nel tuo disco…

“L’artista non è un cronista, non deve mettersi a fare l’attualità, o meglio, dipende, ognuno fa quello che vuole, ci sono artisti che sentono fortemente una battaglia sociale e vogliono cantarla. Io non sono fra questi, le mie canzoni non sono sociali, fino ad ora, invece vogliono avere un aspetto universale. Mettersi a parlare di una pandemia durante una pandemia, oltre ad essere un tema usurato, poi perde l’universalità che dovrebbe avere ogni canzone”.

Sei un ragazzo molto serio?

“Dipende, se facciamo discorsi seri sono serio, se vogliamo parlare di Fantacalcio parliamo di Fantacalcio (e ride)”.

Il tuo rapporto con il successo, in “Assurdo” preghi il chirurgo di fermarsi perché vuoi conservare il cuore, come se quello che ti sta accadendo te lo stia in qualche modo rubando…

“Il successo è una cosa che ho dovuto metabolizzare negli anni, perché è successo tutto molto velocemente…”

…senti ti ha più dato qualcosa o tolto?

“Penso mi abbia più dato che tolto, mi ha dato una serie di opportunità, guardo il bicchiere mezzo pieno, piuttosto che pensare a quello che mi ha tolto, cioè in alcuni casi un po’ di tranquillità, però non voglio sputare nel piatto in cui mangio, è una cosa che mi sono scelto e mi va bene così”.

Qual è al momento il tuo rapporto con il rap?

“Il rap è il genere da cui sono nato, è un genere che continua ad appassionarmi, ma ho dovuto spostarmi un po’ per ragioni di stile, di ispirazione, di freschezza. Non ho sentito la necessità di allontanarmi, è stato molto naturale in alcuni pezzi cantare invece che rappare, ma non perché ci sia stato un ragionamento dietro, così mi è venuto”.

Il jazz, l’ispirazione tratta dal poeta, il ragionamento sulla spiritualità, sulle parole, sulla vita in generale…ti rendi conto che il tuo approccio è decisamente più intellettuale e complesso di quello che nel rap va…?

“Sì, me ne rendo conto, ma se provassi a fare quello che va, non andrebbe (e ride). Il mio approccio è intellettuale perché traggo linfa vitale da quello che leggo, ma non mi definisco un intellettuale, semplicemente la lettura e tanti contenuti colti mi hanno saputo trasmettere qualcosa e da questi sono partito per creare le mie di cose”.

Che linguaggio è oggi quello del rap?

“Oggi è più multiforme che mai il rap, ci sono mille linguaggi, tutta una serie di canoni. Però quello che va ha contenuti molto semplici, principalmente è autocelebrativo, difficilmente troverai una grande cura del testo e se ce la trovi è una cura per renderlo il più semplice possibile, con qualche punchline, qualche frase ad effetto, difficilmente troverai qualche frase poetica nel rap che va, perchè quello che deve avere è l’immediatezza”.

L’impressione è che non sia nemmeno più la lingua delle battaglie sociali…

“Per me non ha mai rappresentato un problema questo, certo il rap nasce come genere sociale, io infatti non sono un purista del rap, anzi, mi stanno quasi più sul c….o i puristi del rap anziché quelli che lo sporcano”.

Ascoltando il disco è difficile trovare un altro rapper al quale avvicinarti idealmente; ma c’è qualcuno che ti ha particolarmente ispirato, che senti più vicino?

“A dire il vero non saprei dirti, io mi rendo conto che questo album è un po’ originale e il mio stile in quest’album è abbastanza originale. Ci sono una serie di rapper con qualche punto in comune con me, chi in una cosa e chi in un’altra, però a dire il vero io ho quasi abbandonato tra i miei ascolti il rap italiano e non lo dico con disprezzo, semplicemente ho sentito un distacco da questo genere. Poi ce ne sono tanti che comunque stimo e ritengo molto capaci, ma io ho preso una strada che non è quella del rap canonico, faccio un rap alternativo che spesso non è nemmeno rap. Anche se anche nei pezzi non rap si sente una reminiscenza di rap, “Assurdo” mentre la scrivevo pensavo fosse un pezzo rap e poi mi sono accorto che no, ma si sente il sentore”.

Possiamo inquadrarti in quello che chiamano “Cantautorap” allora…?

“Si, si può. Ci sono tanti termini. Più è difficile trovarmi una collocazione più vuol dire che sto facendo bene il mio lavoro”.

Rifaresti lo stesso percorso artistico, particolarmente pop, considerando che solitamente da un talent esce di tutto tranne quello che fai tu.

“Io non ho niente contro il pop, ho fatto un talent consapevole che stessi andando nel pop. Il mio obiettivo è portare nel pop dei contenuti non pop, quindi si, rifarei quello che ho fatto, non so se lo rifarei nella stessa identica maniera ma non è che rinnego le scelte, anzi, non penso che ci sia niente di male nel mainstream. Quindi riuscire a portare dei contenuti più intellettuali (termine che mi spaventa un po’, che uso sempre con le pinze), qualcosa di più elaborato e complesso, nel mainstream è stato per me una grande occasione”.

In cosa ti senti diverso da quell’Anastasio di X-Factor?

“Io mi sento molto più cresciuto, mi sono rivisto da poco delle interviste rilasciate dopo “Atto zero” e mi sono trovato ragazzino. Ora mi sento più maturo, sia nei contenuti che nella forma”.

Come hai in mente di presentare questo disco sul palco?

“Io arrivo come me ne sono andato: ho fatto un disco con una band e tornerò con una band, ma con un repertorio più che triplicato, perché avevo fatto solo un disco prima della pandemia e ora sono tre. Lo show è un altro, ma gli elementi sono quelli, mi sono trovato bene con una band di tre persone e ora torniamo con una band di tre persone”.

In questi due anni che idea ti sei fatto della considerazione che il governo ha del tuo mestiere?

“Be, ovviamente non è un mestiere produttivo, non siamo un’acciaieria, non siamo l’Ilva, con le canzoni non ci costruisci le case o le banche, quindi l’impressione è che sia un settore accantonabile. La cultura è in generale un settore accantonabile, che si può fermare, chiaro è che è un mestiere e la gente ne vive, se domani andiamo in guerra, se arriva una carestia, la gente deve mettersi a zappare la terra e delle canzoni se ne fa ben poco. La verità è questa: il settore dell’intrattenimento non produce beni primari, questo non vuol dire che non abbia una dignità e non significa che non sia un settore importante, perché la cultura è il settore dell’umanità, tu stai creando qualcosa, in ogni caso, certo non te la mangi e non ci fai le case”.

Source: agi


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