Nessuno vuole contestare il diritto al “divertimento”, considerato che chiunque è padronissimo di farsi travolgere come e quando vuole dalle frenesie festaiole, ma non sarebbe male avere la decenza di non guardare di traverso chi non condivide quel certo modo d’intendere talune variegate quanto ossessive forme di “distrazione”
di Augusto Lucchese
L’origine e la datazione del “carnevale”, per molti versi, sono tuttora incerti, così come non tutti concordano nel riconoscere che la sua denominazione derivi dal latino “carnem levare”.
Pur essendo comunemente inteso come “festa pagana” per eccellenza, il carnevale è annoverato fra le più attese ”ricorrenze” dell’anno. Nessuno, però, ha mai osato proporne l’ufficiale inserimento nel calendario delle festività riconosciute. La diffusa ipocrisia e i falsi scrupoli della cosiddetta “società civile”, a prescindere dall’ovvio diniego della saccente gerarchia ecclesiastica, non ha mai permesso che gli fosse accordato un simile riconoscimento.
A quanto sembra esso trae origine dal fatto che nell’antica Roma, la classe dei privilegiati, non paga di condurre una decadente vita da crapuloni, aveva inventato (in onore di Bacco – l’oriundo greco Dionisio – dio del vino e nume tutelare dei bagordi epocali) i celebri “baccanali”, antesignani dell’odierno carnevale.
Gli arguti motti, “carpe diem” o “semel in anno… licet insanire …”, nel tempo indicati come slogan giustificativi dei ricorrenti sfrenati assembramenti carnascialeschi, assursero poi ad emblematiche icone della dissoluta vita castellana e di corte e, infine, sopravvivendo all’oscurantismo bigotto del medio evo, ai roghi degli eretici, ai delitti dell’Inquisizione, sono divenuti, di recente, espressione di multiformi deviazioni.
Oggi è ben facile constatare che un po’ dappertutto nel Mondo, ai quattro punti cardinali, il carnevale ha assunto la valenza di un importante evento. Le nutrite schiere di coloro che ritengono importante “onorare” il carnevale, si sono parecchio infoltite e fra gli accesi “fedeli” del “gaudente santone” s’è determinato un coinvolgente legame, frutto della smania festaiola ormai dilagante a tutti i livelli.
I più fanatici, chiaramente, sarebbero ben lieti se il periodo carnevalesco potesse protrarsi per tutto l’anno.
È sempre più rilevante, infatti, il numero di chi, almeno settimanalmente, torna a tuffarsi nel vortice dei bagordi “by night”, nella convinzione che ciò possa rappresentare il migliore rimedio ai diffusi turbamenti psichici, al soggettivo stato di crisi interiore o all’incalzare della depressione, quasi si trattasse di un salutare antidoto per ogni malessere esistenziale.
Nessuno vuole contestare il diritto al “divertimento”, considerato che chiunque è padronissimo di farsi travolgere come e quando vuole dalle citate frenesie festaiole, ma non sarebbe male avere la decenza di non guardare di traverso chi non condivide quel certo modo d’intendere talune variegate quanto ossessive forme di “distrazione”.
Ma tornando sul discorso “carnevale” inteso come “festeggiamento”, non si può non constatare che il discorso, in particolare, coinvolge parecchio l’ambiente “civico” in cui si vive, con l’aggravante che, per realizzare le insulse coreografie delle costose “sfilate” è ormai invalsa l’usanza di bussare a cassa presso le amministrazioni pubbliche al fine d’ottenere congrui “contributi”, magari in virtù di riprovevoli favoritismi o di più o meno consistenti pacchetti di voti elettorali.
Trattasi, spesso, di sostanziose elargizioni che vanno ad assottigliare ulteriormente le già scarse risorse disponibili per fronteggiare la funzionalità dei servizi pubblici e sociali, per la pulizia e il decoro cittadino, per la cura del territorio. Senza dire, poi, dei notevoli esborsi di denaro (autentici sciupii) destinati a fastose illuminazioni, a spettacoli di basso livello, a futili coreografie, a insulse sceneggiate.
Appare scorretto, in tal maniera, addossare ai contribuenti una buona parte dei costi della baldoria carnevalesca il cui peso ricade, conseguentemente, anche su quei cittadini che non sanno proprio che farsene dei chiassosi festeggiamenti carnevaleschi.
Ciò contraddice parecchio quei molti politici e amministratori pubblici che pur non stancandosi mai d’affermare, ipocritamente e con buona pace dei creduloni, che la buona amministrazione presuppone il controllo della spesa pubblica, quando si passa dal dire al fare operano in maniera notevolmente diversa.
Al cittadino “non festaiolo” non dovrebbe essere negato, in ogni caso, il diritto di pretendere che le risorse pubbliche non vengano distratte per sovvenzionare attività non connesse con le inderogabili necessità della collettività. Nel calderone della politica poco salubre anche gli organi di controllo hanno perso la vista e l’udito.
Riprendendo l’argomento base del carnevale e per meglio approfondire le riflessioni prima esposte, appare utile e pertinente rifarsi ad uno scrittore del ‘700 il quale, prendendo lo spunto dal fastoso “Carnevale di Venezia”, ebbe a dire, oltre due secoli addietro (ma è come se fosse oggi) che “… in quei giorni la gente è come impazzita, … si muove a masse compatte fra calle e piazze, camuffandosi dietro variopinti e chiassosi costumi o dietro paurose maschere che spesso servono a coprire oscuri intrighi”. E, a mo’ di chiarimento, si prese cura di precisare che “la massa si lascia volentieri irretire dal carnevale, genuina celebrazione delle miserie morali della società”.
Non si può disconoscere, in ogni caso, il fatto che tale giudizio mette a fuoco la vera essenza dei “riti” carnevaleschi. È chiaro, infatti, che il periodo del carnevale rappresenta il contenitore di palesi ambiguità, di incongruenze sociali, di deviazioni etiche che, tenute circoscritte e represse per tutto l’anno, alla fine emergono in maniera eclatante.
L’occasione appare buona per lasciarsi andare, da “gente pazza che pretende di ragionare”, a chiassose sarabande, a scherzi non sempre garbati, a insulse smargiassate, a sfrenate scorpacciate e bevute.
Come non ritenere a corto di senno coloro che ritengono quasi doveroso porsi in competizione con chi “può più spendere” solo per non incappare in beffardi “giudizi” di conoscenti o vicini di casa?
Salvo, poi, rendersi conto che costoro, con tutta probabilità, dovranno fronteggiare, da un carnevale all’altro, privazioni d’ogni tipo e natura, se non addirittura lo spettro di opprimenti ristrettezze esistenziali.
E che dire ancora di chi, pur se per il resto dell’anno magari è apparso nella veste di inflessibile critico e censore dei comportamenti altrui, d’un tratto, a carnevale, diviene permissivo, accondiscendente e di larghe vedute?
Per magnificare il carnevale, atteso momento di follia collettiva, parecchi “soldini” vengono fuori, con incredibile prodigalità, dalle tasche di chi quasi orgogliosamente intende farsi travolgere dai riti paganeggianti.
La celebrazione del carnevale, di regola, non dovrebbe protrarsi oltre il martedì che precede la ricorrenza delle Ceneri. Dovrebbe lasciare posto – per categorico dettame cristiano – alla “quaresima” e alle “penitenze”.
Tale frontiera, manco a dirlo, non esiste più. È a tutti noto, infatti, come parecchie ricorrenze infrannuali e, purtroppo, anche talune feste religiose – magari con l’interessata benedizione del Clero – mescolano “il sacro al profano” e divengono, non certo casualmente, occasione di frenetiche chiassate di sapore carnevalesco, per poi finire, spesso e volentieri, a “tarallucci e vino”.
Il carnevale è divenuto, di fatto, il motore di una travolgente macchina consumistica.
Fatta questa premessa, non sembra fuor di luogo rifarsi ad alcune riflessioni datate 1948, maturate in un contesto sociale ancora memore dei dolori e delle sofferenze della guerra conclusasi da meno di tre anni, pur precisando che lo scenario del carnevale di allora è tutt’altra cosa rispetto a quello odierno.
Già a quel tempo, tuttavia, si poteva osservare come ciascuno insegue la chimera del divertimento a modo proprio. Era allora maggiormente sconfortante constatare come parecchi “nuovi ricchi” – venuti fuori in maniera ben poco trasparente ed onesta dalle paludi delle angustie belliche e piombati come fiere feroci sulla sostanziosa preda del “boom” della ricostruzione, erano convinti di potere facilmente mascherare la fosca provenienza delle loro fortune con la spregiudicata ostentazione di un elevato tenore di vita. E non erano pochi coloro che, magari infagottati in sfarzosi abiti e ostentando stereotipati sorrisi e disinvolti atteggiamenti, andavano ad accalcarsi nei vari locali approntati alla bisogna per consumare cene luculliane e per scatenarsi, immersi nel frastuono e nella calca, in frenetici balli.
In molti erano convinti d’avere lasciato alle spalle i loro poco lineari trascorsi, oltre che il modo con cui s’erano presto dimenticati del “libro e moschetto”, dell’ “eja, eja, eja, alalà”, delle “adunate oceaniche”, delle sfilate in “orbace” e a “passo romano”.
Anche allora, come oggi, parecchi fra i festaioli di turno s’illudevano di potere annullare, magari solo per qualche giorno o per qualche ora, disagi economici, angustie, sofferenze e insicurezze correndo dietro al carnevale. Molta gente, peraltro, aveva fatto del finto perbenismo e della inconcludente apparenza, una vera e propria dottrina di vita.
Una larga fascia di povera gente, viceversa, per la semplice ragione di essere costretti a vivere quasi in miseria, da emarginati, annaspando fra quotidiani disagi, privazioni e rinunzie, non era certo in grado di calcare le scene del “carnevale”. Persone che avevano ben altro cui pensare e che mai, e poi mai, avrebbero potuto permettersi il lusso di partecipare a festeggiamenti carnascialeschi, a sfilate o balli e, tanto meno, a dispendiosi banchetti.
Anche allora, molto più che oggi, esisteva un’altra faccia della medaglia.
Nel triste scenario del dopoguerra, nel pericoloso anno della svolta politica del 1948, erano poche le persone che riuscivano a riflettere sulla poco edificante realtà sociale parallela, fatta d’angoscianti situazioni, di miserevoli condizioni di vita, d’umilianti realtà che affliggevano le classi sociali povere e che, oltre ogni giustificazione, venivano pressoché ignorate.
Mentre per le strade, nei ritrovi, nelle case dei benestanti si ponevano in essere, con eccessiva prodigalità, banchetti d’ogni tipo, in molte pseudo dimore dei quartieri “poveri” (i dimenticati “ghetti” di paesi e città) regnava spesso, quasi incontrastata, la più squallida indigenza.
Gelide, sporche e disadorne mura facevano da cornice a maleodoranti ambienti ove bambini, tristi e smunti, attendevano, con paziente rassegnazione, un tozzo di pane per lenire la radicata fame e ove ci si contendeva una rabberciata coperta per riscaldare le membra rattrappite dal freddo e dall’inedia. In altri non meno desolati casolari, infermi e anziani pativano inauditi disagi ed erano privi, talvolta, della pur minima assistenza. A fronte dell’incolmabile divario fra ricchi e poveri, esistevano situazioni che avrebbero dovuto turbare la coscienza d’ogni benpensante. Situazioni che, ovviamente, mal s’addicevano con il ripristinato clima festaiolo del carnevale.
Certo non si è più ai tempi del 1948, quando non era raro, all’imbrunire, assistere dal balcone di casa al rientro in paese di tanti umili e poveri contadini. Erano uomini stanchi, incartapecoriti e taciturni, carichi di bisacce e fascine poiché, molto spesso, non disponevano neppure di un asinello o di un mulo.
Avevano faticosamente lavorato tutto il santo giorno e avevano percorso sconnesse e irte strade di campagna. Dal viso ossuto e dalla barba irsuta, traspariva una sorta di velata e malinconica rassegnazione alla fatica. Tuttavia, apparivano ben contenti quando erano riusciti a mettere assieme quel poco di tenera verdura di campagna e quel poco di alimenti di stagione che, a sera, avrebbero consentito alle donne di casa d’approntare una parca cena e, sul fuoco di fumose fornacelle, una calda minestra.
Al chiarore ombrato di un lume a petrolio o di qualche candela annerita, seduti attorno ad un traballante desco, avrebbero potuto consumare così, alla fine della loro stremante giornata, quel misero pasto, prima d’affidare le stanche membra al disiato duro giaciglio. L’alba di un nuovo giorno sarebbe presto giunta, implacabile, ed era necessario riacquistare un po’ di nuova energia e di forza.
Chi, in coscienza, poteva fare finta di non essere consapevole che in taluni squallidi ambienti più o meno cavernicoli, uomini, donne, bambini, portavano avanti la loro grama esistenza assembrati in un unico spazio, talvolta assieme agli animali che rappresentavano il loro più prezioso patrimonio?
Chi mai potrebbe pensare che costoro, autentici reietti della società, avrebbero potuto rivolgere un benevolo pensiero all’imperversante smania festaiola?
Chi mai fra costoro, all’epoca, avrebbe potuto essere attratto e appagato dall’assistere ad una “sfilata carnevalesca”, magari sotto un’imperversante “pioggia di coriandoli”?
La distratta “civiltà”, pur se tanto decantata, non era stata ancora capace di portare loro l’acqua corrente, l’elettricità, le fognature, magari solo per apportare, in quegli ambienti, delle pur minime condizioni d’igiene.
Solo la pioggia, quella battente, era la loro amica, specie quando giungeva copiosa e trascinava a valle il lerciume delle strade, puliva l’acciottolato sconnesso e purificava l’aria, oltre a divenire un prezioso elemento per la loro vita quotidiana nella misura in cui riusciva a riempire le cisterne o, in mancanza, a colmare i catini posti fuori casa.
Dal dopoguerra ad oggi gli anni sono trascorsi ma il modernismo e il tecnicismo che imperversano, le crisi economiche e sociali che si susseguono, i conflitti che divampano in ogni parte del Pianeta fanno sì che, per molti versi, il citato divario tenda ad allargarsi ulteriormente.
È mutato solo lo scenario o gli scenari in cui adesso si svolge il dramma di immense masse di popolazioni.
Concludendo, nessuno pretende di cambiare le radicate convinzioni di coloro che s’inebriano nel promuovere e nel condividere le diffuse balordaggini delle feste di massa, ma è profondamente immorale lo sperpero che si determina attorno ad esse.
In oltraggio ad ogni credo religioso o ad ogni spirito umanitario, il costoso “diritto” al divertimento, a prescindere dal diffuso andazzo dell’ormai adusa esistenza godereccia, serve solo a sperperare preziose risorse.
È quantomeno assurdo ritenere che il partecipare a chiassose serate, magari indossando un “dominò”, una “maschera” o un costoso “costume”, possa fare sì che ci si senta felici e realizzati.
Ciò non sembra possa servire, in ogni caso, a sgomberare la coscienza dal rimorso d’avere offeso la diffusa povertà, magari innescando sentimenti di rancore e di odio di classe, oltre che tentazioni di ribellione o di atti inconsulti.
È bene non dimenticare, per inciso, che v’è ancora tanto di paradossale. È inqualificabile, ad esempio, il comportamento di taluni personaggi politici o sindacali (specie quelli dichiaratamente di “sinistra”, pur non essendo più “proletari” e avendo dismessi da tempo più o meno appariscenti fronzoli rosso porpora), quando disinvoltamente si lasciano coinvolgere anch’essi dai “riti festaioli”, addirittura in competizione con i tanto invisi “capitalisti – reazionari”.
Salvo poi, passata la festa e “gabbatu ‘u santu”, a riprendere la farsa degli abusati e demagogici “discorsi”, magari inneggianti ai diritti del “proletariato”. Forse sperando che la massa dei diseredati possa ancora lasciarsi abbindolare con la promessa d’agognate “riforme” teoricamente utili a sanare i gravi problemi dell’emarginazione sociale. Ogni occasione diviene buona per strumentalizzare la miseria, il disagio salariale, il “caro vita”, per urlare a squarciagola provocatori “slogan”, per intonare inni esaltanti, per chiedere di continuare a votare per loro.
Scivolando lungo il pendio del più antico e insanabile dramma dell’uomo – il diuturno scontro fra ricchezza e povertà – siamo forse finiti, magari senza volerlo, fuori tema.
Confortati però dal fatto che a carnevale “ogni scherzo vale”, non ci resta che chiedere venia agli amici benpensanti ed anche a chi, cocciutamente, non intende rinunciare alle smanie festaiole.