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Seconda guerra mondiale. L’epopea degli Internati Militari Italiani deportati nei lager nazisti

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Dopo l’8 settembre 1943, in pochi giorni, i tedeschi disarmarono e catturarono più di un milione di militari italiani su un totale di quasi due milioni di uomini sotto le armi. Circa 710mila soldati italiani vennero deportati nei campi concentramento nazisti con lo status di I.M.I. Entro la primavera del 1944 in 103mila si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Repubblica Sociale Italiana come arruolati o come ausiliari lavoratori. Altri 600mila, invece, coraggiosamente rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi

di Augusto Lucchese

L’epopea dei cosiddetti Internati Militari Italiani (I.M.I.), pur se estremamente tragica, è ancora oggi largamente sconosciuta alla massa degli italiani. Essa ebbe il suo funesto prologo nel fatidico 8 settembre 1943 quando, in maniera lacunosa e sprovveduta, venne dato l’annuncio ufficiale dello  pseudo armistizio.

La dicitura Internati Militari Italiani (Italienische Militär-Internierte), fu attribuita alla notevole massa dei soldati italiani catturati, rastrellati e deportati dai Tedeschi nei giorni successivi a tale annuncio.

È da ricordare, a tal proposito, che il 3 di quel mese,  in quel di Cassibile, nelle vicinanze di Siracusa, era stato sottoscritto il documento che sanciva la resa dell’Italia, artatamente divulgato con la falsa dicitura di “armistizio” pur se, in effetti, trattavasi di una vera e propria “resa senza condizioni”.

Sotto la spinta ricattatoria del Comando Alleato di Algeri (Gen.le Eisenhower, futuro Presidente degli USA) che minacciava una ulteriore recrudescenza dei bombardamenti a tappeto sulle popolose città italiane e sulla capitale nel caso in cui si fosse ancor più ritardato l’annuncio di cui sopra, Badoglio non poté seguitare a tergiversare (come suo costume) nel chiedere altri rinvii e, nel tardo pomeriggio del citato 8 settembre, dovette notificare ufficialmente al popolo italiano e al mondo, in maniera teatrale e ingannevole, l’accettazione del vessatorio e umiliante “diktat” imposto dai vincitori.

Solo che né lui, nella qualità di Capo del Governo e di responsabile delle Forze Armate, né le gerarchie militari dipendenti, avevano adottato, doverosamente e a tempo debito, alcun idoneo provvedimento atto a fronteggiare le ben prevedibili e inevitabili conseguenze.

Gli avvenimenti che precedettero e seguirono la dichiarazione ufficiale dell’armistizio (19,45 dell’8 settembre 1943) stravolsero ogni razionale comportamento dei vertici istituzionali di comando, e fu il caos.

Oggi, alla luce dei fatti, non è azzardato affermare che l’Italia avrebbe patito meno danni e meno sofferenze se quell’artificioso pseudo “armistizio”, piuttosto che subirne passivamente e poco dignitosamente le tragiche conseguenze, non fosse stato concluso. Esso, in sostanza, fu chiesto in maniera impropria, convenuto in forma del tutto dilettantesca, ai limiti dell’inettitudine. Formalizzando affrettatamente quell’imperfetto quanto dispotico documento, sia il governo badogliano/monarchico che i governi alleati e particolarmente il Comando interalleato di Algeri, non seppero valutare appieno la circostanza della pesante responsabilità che stavano assumendosi. Ci si era avventurati, senza alcuna precauzione, in un vero e proprio campo minato.

Sta di fatto che lo scopo di sganciare l’Italia dal carro di Hitler fu ottenuto solo formalmente (più per motivi di propaganda politica che quale determinante svolta del conflitto), specie perché le operazioni militari nella penisola (come del resto in altre parti d’Europa, particolarmente nello scacchiere del fronte russo) si protrassero ancora per un lungo periodo e, anzi, s’intensificarono con sistemi di reciproca violenza e crudeltà.

Basti pensare al difficile sbarco a Salerno, alla cruenta battaglia del Garigliano, ai durissimi scontri nella zona di Cassino (con l’indegna distruzione da parte degli Alleati della storica Abbazia), alle impreviste alterne vicende belliche di Anzio – Nettuno, ai durissimi combattimenti sulla linea Gotica, a prescindere dal maggiore coinvolgimento, in chiave disastrosa, della popolazione, sottoposta, oltre che a micidiali bombardamenti aerei, ad inaudite privazioni e sofferenze. Senza dimenticare l’oltraggioso e incivile comportamento (stupri, saccheggi, violenze, torture) delle incivili soldataglie marocchine e senegalesi (Goumiers) del Generale Juin, comandante del settore Faito – Monti Aurunci – Valle del Liri,  affidato ai francesi. Crimini di guerra perpetrati sventolando vessilli e bandiere di “liberatori”. Le vittime civili furono circa 10mila.

Dopo l’8 settembre, in definitiva,  furono mandati allo sbaraglio milioni di uomini e si condannarono a morte diverse centinaia di migliaia di militari e di incolpevoli civili.

Gli Alleati, praticamente, non s’erano resi conto dell’errore commesso nel momento in cui, all’inizio delle trattative di resa, non avevano imposto all’inetto governo badogliano una chiara linea d’azione che prevedesse, quale condizione basilare per l’avvio delle trattative, l’approntamento di validi piani mirati a consentire, al momento dell’annuncio del cosiddetto armistizio, la presa di possesso degli importanti settori presidiati in esclusiva dalle Forze Armate italiane, territori ove, in quel momento, la presenza tedesca era ancora scarsa o quasi nulla. Se ciò fosse stato programmato a tempo debito, sarebbe stato possibile assumere, rapidamente e senza eccessive difficoltà, il controllo di vasti territori, oltre che nella stessa Italia, nella Francia meridionale (Tolone – Marsiglia), nella penisola balcanica (Dalmazia – Slovenia)  e in Grecia (Isole Joniche ed Egee – Epiro – Patrasso – Peloponneso).

In agosto-settembre 1943 ciò era ancora strategicamente e tecnicamente fattibile, per come confermato dallo stesso Hitler quando ebbe a dire a Mussolini, in occasione del loro primo incontro dopo la liberazione di quest’ultimo da Campo Imperatore: – “il tradimento italiano, se gli Alleati avessero saputo sfruttarlo, avrebbe potuto provocare il subitaneo crollo della Germania”. Parole che pesano quanto un macigno sulla coscienza di chi, al momento opportuno, non seppe adottare adeguate decisioni.

Ove, in funzione di una pur minima lungimiranza dei capi Alleati e operando in modo che si ponesse rimedio, almeno in parte, all’indecorosa inanità che sovrastava l’apparato di governo e militare italiano, si fosse giunti ad un tale risultato, la guerra in Europa sarebbe potuta finire almeno un anno e mezzo prima, evitando ulteriori carneficine, quale quella dello sbarco in Normandia (operazione Overlord).

Pur non prendendo in considerazione il decantato “genio” dell’infingardo Badoglio, un sentito complimento alla rovescia non può essere negato ai vari Roosewelt, Churchill, Eisenhower e ad altri influenti personaggi alleati.

Dall’alto dei cieli, chi in particolare ebbe a lasciarci la pelle, certamente non potrebbe giudicare favorevolmente il loro lacunoso, affrettato e irrazionale comportamento. Solo che i vincitori, si dice, hanno sempre ragione.

 

Circa un milione e mezzo di militari, sparsi nel territorio nazionale, in Provenza, in Corsica, nei Balcani, in Grecia e nelle Isole del Dodecanneso, furono di fatto abbandonati al loro destino, privi di pertinenti direttive e senza neppure essere stati preventivamente posti a conoscenza di ciò che stava per accadere. Anche i vertici delle Grandi Unità e i Comandi di settore erano all’oscuro di tutto.

Badoglio e lo Stato Maggiore (complice la Monarchia) si comportarono in maniera inqualificabile, di gran lunga peggiore rispetto alle sapute inadempienze che nell’ottobre 1917 avevano determinato la tragica disfatta di Caporetto. Del resto, vedi caso, taluni artefici della nuova sciagura italiana erano gli stessi uomini d’allora. Le insicure e poco rispondenti iniziative tendenti ad ottenere dagli Alleati il famoso “armistizio”, erano state portate avanti maldestramente e di nascosto dai tedeschi che, però, avevano subodorato quanto si stava tramando a loro insaputa.

Da tempo, infatti, avevano predisposto adeguate contromisure (piano “Alarico”) per assumere il controllo militare del territorio italiano e procedere al disarmo delle varie unità e reparti delle regie Forze Armate italiane.

L’irruento Hitler, specialmente infuriato contro Badoglio e il monarca Vittorio Emanuele III, aveva tacciato con l’epiteto di “traditori” gli esponenti dell’apparato istituzionale, governativo e militare italiano al momento in carica.

 

Questa sintetica esposizione dei fatti connessi al tragico 8 settembre 1943 va considerata, a mio giudizio, quale indispensabile premessa per entrare nel merito dell’oscuro capitolo storico che riguarda, per l’appunto, i cosiddetti Internati Militari Italiani (I.M.I.).  

Circa 700mila uomini, da “alleati” che erano sino a quel momento (in funzione dell’ “Asse Roma – Berlino”,  del “Patto d’acciaio”, e del “Patto Tripartito”), si trovarono ad essere considerati, nell’arco di poche ore,  ”nemici” oltre che “traditori”.

“L’otto settembre 1943 è una data fatale per il nostro Paese, …come il 10 giugno1940 e come il 25 luglio 1943. Sono, questi, i punti fermi della nostra storia recente… poiché non è difficile tessere su di essi una trama concreta, dalle linee inconfondibili, la trama della disfatta. Trama, linee sicure, che servono come da filo conduttore per chi voglia rendersi conto dell’attuale crisi”. Così scrive Carlo Bozzi a pag. 23 nel suo articolato testo “Oltre la disfatta” (Edizioni Delfino – Milano – 1952), introducendo una attenta disamina dei rivolgimenti istituzionali e militari che fecero seguito agli oscuri avvenimenti del luglio-settembre ’43 e quelli conseguenti, cruenti, fratricidi, disastrosi, che si protrassero sino all’aprile 1945.

Avvenimenti che, in prosieguo, decretarono la fine della monarchia e crearono le condizioni per  l’avvento della attuale, zoppa democrazia repubblicana la quale, malgrado basata su una Carta Costituzionale degna del massimo rispetto, stenta tuttora ad esprimere personalità politiche capaci di elevarsi al di sopra delle parti e che possano essere, specie a livello morale e civico, realmente idonee a  pilotare la complessa e purtroppo malconcia macchina dello Stato democratico. E non è fuor di luogo, traendo spunto proprio dagli avvenimenti in trattazione, fare rilevare che non s’è persa l’abitudine, prettamente italiana, di prediligere le parole ai fatti.

Non va sottaciuto, a tal proposito, il fatto che l’esimia classe dirigente e politica post “liberazione”, ha spudoratamente impiegato ben 50 anni per avvertire il coscienzioso dovere di riportare alla memoria l’inumana odissea dei militari italiani internati nei “lager” e nei campi di lavoro tedeschi, dopo che, spesso con la forza, erano stati sopraffatti e disarmati. Odissea peraltro dignitosamente vissuta (in taluni casi eroicamente) dalla stragrande maggioranza dei militari abbandonati al loro destino. Solo nel novembre 1997 fu deciso di concedere una medaglia d’oro al valore militare alla dimenticata tipologia di vittime e di martiri appartenenti agli “Internati Militari Italiani”. Il loro sacrificio, i patimenti, le impietose angherie, la fame, il massacrante lavoro forzato, non hanno niente di meno (forse qualcosa in più) rispetto alle sofferenze di altre categorie di “deportati”. Fra l’altro non godevano neppure del trattamento previsto dalla convenzione di Ginevra del 1929 riguardante i “prigionieri di guerra” e, quindi, non erano sotto la tutela della Croce Rossa Internazionale. Il 20 novembre 1943, oltretutto, i capi della Germania nazista avevano disinvoltamente respinto l’intimazione loro rivolta per cercare di assicurare adeguata assistenza agli “internati”. Fu ribadito che “non erano da considerare prigionieri di guerra”.

Ai militari italiani deportati, invece, fu semplicemente offerta la scelta di aderire alla neonata Repubblica Sociale di Salò.  Solo il 10% accettò. Gli altri, non essendo “prigionieri di guerra”, furono in gran parte utilizzati, spesso coartatamente, come mano d’opera. Furono impiegati nei campi e nelle fattorie, nelle industrie belliche, nei servizi antincendio e nello sgombero delle macerie delle città tedesche bombardate. Una sorta di crudele nuovo schiavismo.

Chi ha vissuto quel tragico periodo racconta che l’alimentazione era insufficiente e per integrarla si ricorreva spesso agli avanzi reperiti fra le immondizie (bucce di patate o resti dei refettori tedeschi) o a piccoli animali come topi, rane e lucertole. Le misere disponibilità di denaro di cui qualcuno poteva disporre, non erano sufficienti per procurarsi  generi di prima necessità o di igiene personale.

I controlli erano frequenti e spesso davano luogo a indegne punizioni collettive che determinavano l’inasprimento del rigore o la riduzione della razione alimentare. Nelle primordiali baracche – dormitori non esistevano servizi igienici e ognuno si dava da fare come poteva utilizzando gli spazi esterni, molto spesso con temperature sottozero. Gli internati, oltretutto, disponevano solo degli indumenti con cui erano stati catturati, di massima inidonei a contrastare il freddo delle zone in cui erano stati installati i “lager”. Molti, quindi, si ammalarono di tubercolosi, polmoniti e pleuriti, a parte le frequenti epidemie tifoidee.

I truci carcerieri tedeschi, con malcelato disprezzo, avevano adottato la linea di appellare i militari italiani internati con la dicitura di Badoglio-truppen”.

Alcune cifre, meglio di ogni altra argomentazione, servono a mettere in luce la disastrosa situazione determinatasi a fronte dell’incapacità, della codardia, della doppiezza comportamentale poste in evidenza da un po’ tutti i componenti dell’equipe del governo badogliano (in uno alla palese corresponsabilità dell’entourage monarchico) nei 45 giorni che vanno dal 25 luglio 43 (colpo di stato e arresto di Mussolini) al nefasto pomeriggio dell’8 settembre quando venne annunciata l’accettazione dell’armistizio o resa incondizionata che dir si voglia. Sono cifre desunte dalla documentazione ritrovata negli archivi italiani e tedeschi. Come tali le riportiamo, senza alcuna variazione.

  • In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani (58mila in Francia, 321mila in Italia e 430mila nei Balcani), su un totale approssimativo di circa 2.000.000 di uomini sotto le armi. Ben 196mila scamparono alla deportazione dandosi alla macchia o perché, casualmente, si trovavano in zone fuori controllo dei tedeschi. Dei rimanenti 810mila circa, 13mila persero la vita in mare a causa di azioni di guerra alleate durante il trasporto dalle isole greche alla terraferma. Solo 94mila, decisero di accettare l’offerta di aderire alla Repubblica fascista di Salò.
  • Nei campi di concentramento vennero deportati circa 710mila militari italiani con lo status di I.M.I. Entro la primavera del 1944, altri 103mila si dichiararono disponibili a prestare servizio per la RSI, come arruolati o come ausiliari lavoratori. Circa 600mila, parecchio coraggiosamente, rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi.
  • Non risulta possibile, tuttavia, stabilire ufficialmente il numero degli I.M.I. deceduti durante la prigionia. Si presume che oscillino tra 37mila e 50mila fra cui circa 23mila per malattie o denutrizione e 4.600 per esecuzioni capitali.
  • La maggior parte degli internati sopravvissuti ritornò avventurosamente in Patria tra l’estate del 1945 e i primi mesi del 1946, mediante treni approntati alla meno peggio.
  • Il 6 giugno 1945 era stata riaperta la ferrovia del Brennero attraverso la quale presero a defluire da 3mila a 4mila militari italiani al giorno. Successivamente  furono anche riaperti i varchi alpini del San Gottardo e del Sempione.
  • Stessa favorevole sorte non toccò tuttavia ad alcune migliaia di ex I.M.I. che erano finiti, purtroppo, in mani russe e jugoslave. Essi dovettero sottostare alla prigionia ancora per parecchi mesi, pur dopo la fine della guerra.

Da quanto prima rassegnato ognuno è libero di trarre un appropriato, sostanziale giudizio, ma una cosa è certa e inconfutabile: le guerre sono la peggiore tragedia che può colpire la società umana. Le conseguenze sono ancora peggiori ove si palesino motivazioni di incapacità, di inettitudine, di pressapochismo da parte di chi, in determinati momenti storici, occupa posti di rilievo nella gerarchia politica e militare cui è devoluto il compito di pianificare e coordinare le azioni belliche.

 

(L’argomento trattato in quest’articolo è stato oggetto, tempo addietro, di una trasmissione di Rai Storia, condotta dal valente Paolo Mieli, con la partecipazione della Professoressa Chiara Colombini, dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea (Istoreto).
Avendo attentamente seguito tale reportage, il pensiero è andato istintivamente al ricordo di mio cognato Giuseppe Miccichè – Ufficiale del Regio Esercito in Grecia dal 1941 al 1943 – che ebbe a vivere quella tragica esperienza. Prima della sua dipartita, avvenuta nel 2005, egli ha lasciato parecchio materiale riguardante la sua odissea, peraltro raccontata e documentata in un breve testo dedicato ai familiari). A. L.