di Antonino Gulisano
L’inflazione sarà un fenomeno passeggero oppure no? È la domanda che sta dividendo le banche centrali nel mondo, in disaccordo su quanto preoccuparsi per un aumento dei prezzi che non si vedeva da decenni. Nella maggior parte delle economie sviluppate del mondo, dall’Europa agli Stati Uniti a parte dell’Asia, è ai massimi da vari decenni l’inflazione, cioè l’aumento dei prezzi dei beni. Negli Stati Uniti, l’inflazione è al 6,8 per cento; nell’Eurozona al 4,9 per cento, mentre in Giappone non si assisteva a un aumento dei prezzi così significativo da oltre 40 anni.
Ma in generale, si può dire che l’inflazione è tornata in tutte le economie più sviluppate, dopo che per decenni era rimasta ai minimi storici. Davanti a questo ritorno, tra gli economisti e le istituzioni c’è un dibattito piuttosto acceso: c’è disaccordo su quanto durerà (si va da pochi mesi a qualche anno) e su quali siano le misure migliori da adottare per contrastarla, senza rischiare di penalizzare la ripresa economica.
Di solito, un aumento moderato dell’inflazione non è un problema e anzi è ben accolto dai governi, perché un certo aumento dei prezzi indica che l’economia è in buona salute e la domanda di beni e servizi è forte. Quando però l’inflazione cresce troppo si presenta un grave problema per le economie, perché, tra le altre cose, il costo della vita aumenta eccessivamente, i salari non riescono a tenere il passo e la popolazione si impoverisce. Semplificando molto, possiamo dire che alzando i tassi si riduce l’inflazione, ma si rischia anche di rallentare la crescita economica, perché la quantità di denaro in circolazione viene ridotta. Abbassando i tassi si incentiva viceversa la crescita economica, ma al tempo stesso si rischia un aumento dell’inflazione.
Perché è tornata l’inflazione proprio adesso?
Come si è arrivati a questo aumento dell’inflazione è una delle questioni più dibattute tra gli economisti. Anche in questo caso, con molte semplificazioni, si può dire che ci sono due teorie concorrenti.
La prima sostiene che gli enormi stimoli economici e monetari concessi dai governi e dalle banche centrali nella prima fase della pandemia abbiano “surriscaldato l’economia”. In pratica, l’idea è che sia stato iniettato nei conti correnti dei consumatori e nei bilanci delle imprese e delle banche, attraverso sussidi, detrazioni e altri sistemi, più denaro di quello che è possibile spendere per generare nuova attività economica. Se in circolazione c’è più denaro di quello che l’economia può assorbire, i prezzi aumentano, perché consumatori e imprese finiscono per contendersi beni e servizi.
L’altra teoria ritiene invece che il ritorno dell’inflazione sia dovuto non tanto a scelte di politica economica, quando ad alcuni fattori esterni, in particolar modo la crisi dei commerci mondiali, che sta rallentando la produzione e il trasporto di moltissimi beni in tutto il mondo, e la crisi energetica, che sta facendo aumentare molto il prezzo dell’energia. In pratica, chi sostiene questa teoria ritiene che l’inflazione sia aumentata non perché l’economia si sia “surriscaldata”, ma perché una serie di crisi ha provocato una certa scarsità di beni e materie prime, che a sua volta ha provocato un aumento dei prezzi dei beni e delle materie prime ancora disponibili. La differenza principale rispetto al periodo precedente alla crisi (e una delle cause degli ingorghi nella produzione e nei trasporti, e dunque dell’inflazione) sarebbe che per via della pandemia le persone spendono di più in prodotti e meno in servizi: anziché abbonarsi in palestra, usano gli stessi soldi per comprare una cyclette. Questa teoria è sostenuta da economisti altrettanto prestigiosi, come il premio Nobel Paul Krugman.
In questo fenomeno inflazionario si sono formate due scuole di pensiero, che corrispondono grossomodo alle due teorie citate qui sopra su come l’inflazione si è generata: il “Team transitorio” e il “Team persistente”.
Come è facile intuire, il Team transitorio – a cui appartiene lo stesso Krugman – ritiene che l’inflazione sia provocata da cause passeggere, come appunto la crisi dei commerci mondiali, e che dunque appena queste cause spariranno o saranno alleviate, le cose torneranno alla normalità. Potrebbe volerci qualche mese, ma gli ottimisti ritengono che l’inflazione potrebbe cominciare a ridursi già nel 2022 – a patto, ovviamente, che le cause esterne si risolvano. Questa ipotesi transitoria è la più ottimista per l’economia, perché sostiene che l’alta inflazione sia un fenomeno relativamente effimero, che non richiederà particolari aggiustamenti monetari e che non danneggerà seriamente la ripresa economica.
Il “Team persistente” è più pessimista. Gli economisti che ne fanno parte ritengono che l’aumento dell’inflazione sia provocato da cause economiche più strutturali, e che dunque l’inflazione rimarrà alta per parecchio tempo (si parla di qualche anno), che il suo aumento potrebbe essere ancor più consistente di quello che abbiamo visto in questi mesi e che ciò avrà conseguenze importanti sulle economie e in ultima istanza sulle nostre vite.
Qualche giorno fa, la FED ha annunciato che ridurrà più rapidamente di quanto previsto il suo programma di acquisto di titoli di stato (limitando così la quantità di denaro che circola nell’economia) e soprattutto ha fatto capire che nel 2022 potrebbe alzare i tassi per ben tre volte, e continuare a farlo fino al 2024. Attualmente i tassi negli Stati Uniti sono praticamente a zero, così come nell’Eurozona.
L’unica grossa banca centrale che ancora resiste è la BCE. Questa settimana la sua presidente, Christine Lagarde, ha sì annunciato una decisa diminuzione nel ritmo degli acquisti di titoli di stato (che però continuerà almeno per tutto il 2022), ma ha anche fatto capire piuttosto chiaramente che la Banca centrale europea continua a considerare l’aumento dell’inflazione come in buona parte temporaneo. Prevede che arriverà al 3,2 per cento nel 2022, ma che poi crollerà all’1,8 per cento nel 2023 e nel 2024, ben sotto il target del 2 per cento.
Un ‘altro aspetto dell’inflazione si evidenzia nelle quotazioni delle produzione delle materie prime agricole come mais, soia e grano sono cresciute nel 2021. Quali sono le previsioni per il prossimo anno?
Commodity agricole stanno facendo aumentare molto il prezzo dell’energia. In pratica, chi sostiene questa teoria ritiene che l’inflazione sia aumentata non perché l’economia si sia “surriscaldata”, ma perché una serie di crisi ha provocato una certa scarsità di beni e materie prime, che a sua volta ha provocato un aumento dei prezzi dei beni e delle materie prime ancora disponibili. La riduzione delle scorte a livello mondiale è stata la principale causa dietro l’impennata dei prezzi, alla quale si è sommato l’aumento esponenziale della domanda da parte di alcuni grandi importatori, Cina in primis.
Le previsioni degli analisti sembrano tendere per una flessione del prezzo delle commodity agricole durante la seconda parte dell’anno, poiché dall’analisi dei dati storici emerge un’elevata elasticità della loro offerta ai prezzi: in parole povere, se le quotazioni aumentano, i produttori sono portati a offrirne una maggior quantità sul mercato, con la conseguente contrazione del prezzo. A ogni modo, l’andamento dei cereali e dei semi dipenderà da numerosi altri fattori, quali ad esempio il possibile rallentamento della produzione americana, il deterioramento dei rapporti commerciali tra Washington e Pechino, e l’aumento della richiesta di biocarburanti.
In conclusione, il ruolo della transizione energetica sarà cruciale per le materie prime agricole. La spinta di molti governi e grandi società verso l’adozione di fonti energetiche rinnovabili può rivelarsi cruciale per i movimenti futuri della commodity agricole. Gli stessi USA hanno avviato investimenti sostanziosi per lo studio e lo sviluppo di biocombustibili, che si ottengono da cereali e semi come mais e soia. Proprio i carburanti a base di soia hanno conosciuto una buona crescita nel corso del 2021, e in estate le loro quotazioni hanno toccato i massimi storici.