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NATALE AL MUSEO. “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich (1818)

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 di Gianni De Iuliis

VIANDANTE SUL MARE DI NEBBIA – CASPAR DAVID FRIEDRICH (1818)

Tecnica: olio su tela; Dimensioni: 98,4 x 74,8 cm; Luogo: Hamburger Kunsthalle, Amburgo

 

Caspar David Friedrich è uno dei più significativi esponenti dell’arte romantica. Nelle sue opere troviamo tutti i tratti essenziali che connotano la corrente del Romanticismo. In particolare egli è molto attento nella rappresentazione della natura, contribuendo a evolvere la concezione classica di paesaggio, mero sfondo esteticamente gradevole, subordinato sempre al protagonismo dell’umano. 

Nelle sue opere la natura diventa protagonista, autosufficiente e manifestazione infinita dell’assoluto, mentre la figura umana è spesso relegata in secondo piano. Per evidenziare tale capovolgimento dei canoni tradizionali utilizza la tecnica della Rückenfigur, per cui la figura umana è ritratta di tergo. 

Tale escamotage figurativo ottiene diversi risultati. Innanzi tutto rappresentare l’uomo sempre di spalle o comunque in modo tale che non si veda il suo viso coinvolge direttamente l’osservatore, che in tale maniera s’immedesima nella figura umana e partecipa attivamente alla contemplazione della natura. Inoltre la natura stessa si staglia in primo piano in tutta la sua sconfinata potenza, esprimendo mediante i tratti rappresentati il valore estetico del Sublime che provoca, nella sua immensità, nella sua forza e nella sua dismisura pericolo e dolore all’uomo. Kant, riprendendo una definizione di Burke, parlò di «orrore dilettoso». Mediante la Rückenfigur si esalta per contrasto la potenza della natura e l’impotenza e la piccolezza materiale dell’uomo, essere finito che assiste passivamente all’ incommensurabile, consapevole dell’impossibilità di dominare il reale, come evocato dal paradigma epistemologico occidentale. In ultima analisi tale tecnica umanizza e spiritualizza la natura, riuscendo a rappresentare paesaggi malinconici, mesti, depressi, inquieti, nostalgici o al contrario gai, gioiosi, lieti, raggianti, briosi.

Nell’opera di Caspar David Friedrich l’osservatore è sospinto sulla roccia e indotto ad ammirare la valle sottostante coperta da una coltre di nebbia che la trasforma in un mare in tempesta che sembra volerlo fagocitare. Ma la sensazione che avvertiamo su quella roccia mentre ammiriamo il paesaggio non è di terrore. Abbiamo la totale consapevolezza di poter contemplare senza correre alcun pericolo. Ma anche la completa certezza che non possiamo controllare nulla, noi esseri della natura nella natura. L’homo faber, l’uomo dominatore del reale, l’uomo scienziato che può studiare le leggi della natura per prevederne i fenomeni è una pallida idea, un’illusione pericolosa della civiltà occidentale che per inerzia porterà l’uomo alla distruzione, alla guerra, all’inquinamento ambientale. 

Da homo faber a viandante. Il miracolo di Friederich che anticipa Nietzsche: il viandante come avo dello ubermensch. La figura del viandante s’ inserisce nella tradizione della metafora del viaggio come conoscenza e formazione. È un topos della tradizione romantica. Il viandante è il simbolo di un’umanità nuova, finalmente libera dalle illusioni baconiane e dagli intellettualismi illuministici. Un uomo che si pone al di là della protezione metafisica e teologica, che rifiuta consolazioni, che vive il suo tempo secondo i ritmi di una ciclicità che lo tiene ancorato saldamente al presente, accettando il caso e l’indecifrabilità del futuro. Un uomo coraggioso che si abbandona alla vita. Un nomade che rifugge il noto, il prevedibile, il programmato. Un nomade che accetta la caoticità del reale. Che non rinchiude la sua esistenza in schemi razionalistici, ordinati e sistematici. Che s’immerge nella vita valorizzando la dimensione dell’ebbrezza, della sensualità, dell’ esaltazione e dell’ entusiasmo. 

Concludiamo citando Umberto Galimberti: «Non si legga l’etica del viandante come anarchica erranza. Il nomadismo è la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, dove è l’accadimento stesso, l’accadimento non iscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio, all’interno del quale occorre prendere le nostre decisioni a partire da come le cose si presentano e con i mezzi al momento a nostra disposizione».