di Gianni De Iuliis
La Grande depressione (detta anche Grande crisi o Crollo di Wall Street) fu una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni venti.
Ebbe origine negli Stati Uniti d’America, cui fece seguito il definitivo crollo (crack) della borsa valori del 24 ottobre (giovedì nero), dopo anni di boom azionario.
Fino al 1929 la produzione industriale statunitense aumentò del 64%, la produttività del 43%, i profitti del 76%, i salari del 30%. Ma tali dati di macroeconomia celavano alcuni campanelli d’allarme.
Si assisteva a un pericoloso squilibrio fra crescita industriale, crescita dei profitti e crescita dei salari: la distribuzione dei redditi era troppo squilibrata. Il 5% dei cittadini percepiva 1/3 dell’intero reddito nazionale. 500 cittadini guadagnavano quanto 600.000 salariati dell’industria automobilistica, che erano i meglio retribuiti. La divaricazione tra profitti e salari derivava dalla debolezza dei sindacati, dovuta al taylorismo, che squalificando il lavoro operaio ne diminuiva la forza contrattuale e dalla prevalenza del Partito Repubblicano, che governò ininterrottamente dal 1921 al 1932. Tale partito era legato agli ambienti del capitalismo.
La capacità d’acquisto della maggioranza degli statunitensi non cresceva proporzionalmente alla crescita della produzione industriale. Tutto ciò nel medio periodo innescò un meccanismo perverso che portò alla crisi di sovrapproduzione. Un altro elemento fragile dell’economia fu la politica protezionistica adottata dagli Usa e via via anche dagli Stati europei. Ciò comportava una sempre maggiore restrizione delle possibilità di acquisto da parte dei mercati, con notevole danno alle esportazioni, danno che toccò soprattutto gli USA. Inoltre molti governi scelsero la deflazione per difendere la moneta nazionale, con la conseguenza di limitarne la circolazione, condizionare negativamente il libero spostamento dei capitali, abbassare il potere d’acquisto dei salari, rendere oneroso il prestito bancario, deprimere la domanda. Il mercato internazionale divenne fragile e stagnante, incapace di assorbire l’aumento della produzione.
A tali squilibri si aggiunse un fattore di precarietà psicologico: la prospettiva, largamente avallata dalla propaganda, che si aprissero per tutti prospettive di rapido arricchimento, dovuto non tanto al lavoro, ma a fortunate e audaci attività speculative. Le imprese spesso impiegavano i capitali non in investimenti produttivi, ma in speculazioni di Borsa. Anche i piccoli risparmiatori furono afflitti da tale febbre speculativa, acquistando titoli quotati in borsa, che poi crescevano vertiginosamente di valore. Gli indici della Borsa di New York esemplificavano le conseguenze pratiche di tale mito: 1924, 104 punti; 09/1929, 452 punti. Gli indici di Borsa si erano sganciati dall’andamento dell’economia reale.
Il 24 ottobre, giovedì nero, crolla la borsa di New York, con circa tredici milioni di azioni che vengono contrattate e che precipitano. Il 28 ottobre vengono contrattate altre nove milioni di azioni, il 29 ottobre quasi 17 milioni di azioni. Il ribasso continua fino all’8 luglio 1932, quando l’indice raggiunge 58 punti. Il crollo della borsa non fu la causa principale della crisi, ma sicuramente concorse a inasprirla, portando alla rovina centinaia di migliaia di famiglie.
Poiché gli Usa erano il centro di gravità dell’economia mondiale, fatta eccezione per la Russia, la crisi si diffuse in tutti i paesi capitalistici.