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Italia e Austria, una maglietta nera da evitare

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AGI – Agli spocchiosi e ai faciloni, a chi già pensa oltre e a chi non vede il problema, diciamo: attenti, quelli non sono da prendere sottogamba. Gli austriaci possono far male, e non lo diciamo ai suddetti perché siamo menagrami, ma perché tra noi e l’Austria non c’è tanto l’Istro, ma talvolta solo il Piave. Altrimenti che senso avrebbe quest’ancestrale supponenza che, come ogni sentimento ad essa consimile, nasconde in fondo in fondo l’inquietudine?

Italia e Austria, Austria e Italia: in mezzo il monte, bucato da due passaggi o forse tre. Ad Pirum, come i Romani chiamavano il passo di Tarvisio. Ma soprattutto Brennero e Valle dell’Isonzo. Il primo con quel nome che sa di barbarie addomesticata ma distruttrice, l’altra che se la percorri nel senso della corrente (e l’acqua è smeraldina come fosse Mar dei Caraibi) ti ritrovi, in un men che non si dica, a Romans. Che poi è la porta dell’Italia, ma anche il primo sito longobardo dello Stivale: quei semiscandinavi avevano capito bene da dove convenisse passare.

Vero: Tarvisio e Brennero danno sull’Austria come la conosciamo oggi, l’Isonzo invece inizia in Slovenia. Ma per noi, che quando ragioniamo di calcio ricorriamo alle memorie ricavate dai sussidiari, in fondo è la stessa cosa. Dodici furono le battaglie sull’Isonzo, e sull’altra parte del fronte c’erano loro, gli austriaci.

Che poi fossero anche sloveni boemi slovacchi galiziani ungheresi e persino italiani delle terre irredente, oltre che austriaci, fa lo stesso. Tutti todeschi erano. Le case d’Italia son fatte per noi, è là sul Danubio la casa dei tuoi.

Loro devono a noi persino il nome, se ne facciano una ragione. La prima citazione colta degli austriaci la trovi in Dante (Inferno, XXXII, 26) ed è Osterlicchi. Le altre saranno pure più antiche, ma sono burocratiche e pertanto non fanno testo, non recano il sigillo dell’arte. Evidente comunque l’assonanza con Oesterreich, nome attuale in lingua originale: “Impero orientale”; come ancora adesso i tedeschi, ad indicar la Francia, parlano impenitenti di “impero dei Franchi”. Poi dice perché fare l’Europa unita non è cosa scontata.

L’Impero del calcio

Gli Europei sono ben più facili, ma non scontati nemmeno quelli. Per decenni e decenni ci hanno insegnato loro, gli austriaci, come si tirava la palla in porta. Il periodo d’oro di Pozzo si apre dopo una batosta con loro nel ‘29 e si chiude con un’altra batosta, sempre con loro, nel ‘47. Per anni il nostro estro ben poco ha potuto contro la loro organizzazione.

Persino il Reich, quello cattivo, ebbe a dover chinare il capo. Era il 3 aprile 1938, si giocava al Prater di Vienna la “Partita della Riunificazione” che avrebbe dovuto dare il sigillo della legittimità sportiva all’Anschluss di Hitler. Finì con quell’austriaco apolide che aveva fatto faville in Germania ridotto a schiumare rabbia come non gli capitava dai tempi di Jesse Owens: due reti degli annessi e zero per gli occupanti.

Con Mathias Sindelar, capitano austriaco nonché figlio di un moravo morto sul fronte con l’Italia, che faceva la passerella sotto la tribuna. E pensava, alzando le braccia al cielo, alla sua patria bella e perduta, ma anche a quella terra che gli aveva tolto il padre e che poche settimane addietro si era rifiutata di intervenire a salvare il suo destino e quello dei suoi amici.

Ma non disperiamo: la storia di Italia e Austria, quando non ci si fa la guerra, è storia di civiltà.

L’ombra di Canapone

È vero che fu un renano, principe austriaco per caso, a coniare la definizione più fastidiosa mai data del Belpaese. Ma è anche vero che quello asburgico, un impero medievale multinazionale che ebbe semmai la colpa di saper vivere fino in pieno Novecento, a noi molte cose le ha insegnate, non ultima la buona amministrazione. E mica solo in Lombardo-Veneto, anche in Toscana.

Quando arrivarono i Savoia con i loro plebisciti, a Pietrasanta in provincia di Lucca nessuno ebbe l’ardire di abbattere il monumento a Canapone, Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, e nemmeno lo fecero a Grosseto. Sarebbe stata imperdonabile grettezza d’animo di fronte alla grandezza di quella banda di austro-toscani, che insegnarono al mondo cosa sia l’essere umano ed abolirono d’un sol colpo tortura e pena di morte.

Quando poi si trattò di trovar la pace, una volta per tutte, un ex suddito ed ex parlamentare asburgico come Alcide De Gasperi si intese a meraviglia con il parigrado di Vienna, Karl Gruber, e ne venne fuori un pacchetto di tutele per l’Alto Adige che di più lungimiranti non se ne potevano immaginare.

Tanto che, nell’anno in cui anche l’ultimo chiodo di quell’intesa fu piantato e l’ultima vite fu stretta, Andreotti e De Michelis poterono andare a Belgrado a suggerire di far la stessa cosa, con la Jugoslavia che si andava dissolvendo. Non furono ascoltati, ma se lo fossero stati magari ci saremmo risparmiati l’assedio di Sarajevo.

Perché anche nel nostro caso, che pur riguarda due nazioni antiche e civili, ci si rifiuta di imparare dal passato. Sbarcano gli immigrati a Lampedusa e qualcuno chiude il Brennero. Scoppia il covid e qualcuno chiude il Brennero. Ci si accorge che il covid è arrivato in Austria da Monaco di Baviera, ma non si riapre il Brennero.

Quando si è troppo giovani è un problema gestire una storia che è antica, gloriosa e imperiale. Altrimenti si saprebbe bene che, ad esempio, il nero è sì il colore storico del Partito Popolare austriaco, ma anche quello che nel 1938, quando Sindelar metteva in rete compiendo l’estremo gesto di resistenza al nazismo, veniva indossato dall’Italia ai Mondiali di Parigi.

Quell’Italia che, a differenza di quattro anni prima, si era rifiutata di mobilitare le divisioni al Brennero – sempre al Brennero – per salvare la traballante indipendenza austriaca. Italia dimentica di Canapone, che ciò resti nei secoli a tua vergogna.

Forse è meglio se, a differenza degli incontri con Macedonia del Nord e Olanda, qualcuno decidesse di lasciare in albergo la maglietta nera. Vai pure a sdrammatizzare il tutto con dei ridicoli pantaloncini verde acido, ma l’effetto “Fuga per la Vittoria” resta tutto. Insomma, troppo infelicemente evocativa.

Herbert Prohaska, ad esempio, preferiva il nerazzurro o, in assenza, il giallorosso.

Source: agi


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