Il travaglio delle principali forze politiche in vista delle elezioni amministrative d’autunno accompagna una fase di cambiamento all’ombra del governo Draghi, che al momento è l’unica certezza della politica italiana
di Antonino Gulisano
All’indomani delle primarie con cui il Partito democratico ha scelto i propri candidati in alcuni dei comuni che andranno al voto in autunno, ottenendo a seconda dei casi titoli che vanno dal flop dell’affluenza alle polemiche sulla regolarità delle operazioni, la domanda che s’impone anche al lettore più distratto e svogliato è una sola: perché?
Quale vantaggio pensano di trarre da un rito che nel migliore dei casi finisce in una manifestazione di debolezza, e nel peggiore in una guerra civile?
Assurde accuse di brogli, polemiche politicamente scorrette, ripicche e risentimenti a catena.
Nelle primarie romane la presenza in fila di stranieri bengalesi “per farli votare con il santino in mano senza sapere nemmeno chi devono votare” ha portato a quello che è stato prontamente battezzato come il «Bengala-gate».
Ancora più significativo di quello romano, da questo punto di vista, è stato il caso delle primarie bolognesi. Un minuto dopo la vittoria del candidato sponsorizzato dal gruppo dirigente, Matteo Lepore, anche lui col 60 per cento dei consensi, i canali social di dirigenti e semplici militanti del Pd si sono riempiti infatti di sberleffi e marameo all’indirizzo di Matteo Renzi, sponsor di Isabella Conti, ferma al 40. Salvo poi affrettarsi tutti a chiedere lealtà e a paventare il rischio che la «renziana» volesse correre da sola.
Del resto, alla fine dei conti, gli sfidanti sembra non restino mai nello stesso partito. Basta guardare i precedenti. Alle primarie del 2012, si affrontarono Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Ciascuno di loro, dopo aver fatto il leader (prima Bersani, poi Renzi), ha preferito lasciare il partito piuttosto che convivere con i nuovi vincitori.
Alle primarie del 2013, quelle vinte da Renzi, al secondo turno arrivarono anche Gianni Cuperlo e Pippo Civati. È rimasto solo Cuperlo. Alle primarie del 2019, quelle vinte da Nicola Zingaretti, arrivò al secondo turno anche Roberto Giachetti, ora in Italia Viva. In questo schema ricorrente, l’unica eccezione significativa sembra essere Dario Franceschini. Dai e dai, alla fine ne resterà solo uno. E sarà Franceschini.
I gazebo sono l’incubatore di tutte le scissioni e le lotte intestine degli ultimi anni. Perché insistere?
Sembra una tendenza autodistruttiva ormai antica. Ed è comunque degno di nota che alle primarie del 2007, quelle con cui il Pd fu “fondato”, il fatto che anche chi non aveva ancora la cittadinanza potesse votare era motivo di vanto.
Sul fronte opposto il centrodestra italiano si interroga sul suo futuro, dopo le proposte di Matteo Salvini e le telefonate intercorse tra quest’ultimo e Silvio Berlusconi. Semplice alleanza, federazione, coalizione elettorale o partito unico con tanto di fusione?
Berlusconi ha detto ‘vediamo’, ‘esaminiamo’, “Salvini è un nostro alleato ed è normale e naturale discutere delle proposte degli alleati. Valuteremo, vedremo. Poi gli organi di Forza Italia prenderanno le decisioni”. Berlusconi ha prospettato solo per il futuro l’idea di un grande partito del centrodestra, inclusa la Meloni. Ora le cose restano come sono e non ci sarà alcun partito unico: rimarranno diversi i simboli, i partiti, le organizzazioni, le sedi. Insomma, Forza Italia resterà: “l’ipotesi di fonderci con la Lega non esiste”.
Sul fronte del M5S: slitta la data della convention di presentazione del nuovo Movimento a una data “ancora da destinarsi”. È quanto si apprende da fonti del Movimento. Il rinvio del lancio del nuovo Movimento sembra sia dovuto ad una diversa valutazione sulle norme contenute nel nuovo Statuto e sulla conformazione del futuro organismo direttivo, tra Giuseppe Conte e il fondatore del Movimento, Beppe Grillo, che resterà garante del M5S.
Questo è lo scenario del mondo politico italiano determinato dalle vicende interne dei tre principali protagonisti: PD, Centro Destra (Lega, FI, FdI) M5S, in vista delle elezioni amministrative di ottobre 2021.
Il PD ha vocazione scissionista, si divide e si delegittima da solo. Anche se il suo segretario Letta ripropone la prospettiva di un sistema maggioritario, senza aver capito di non potere guidare una formazione di centro-(pseudo)sinistra senza un progetto e una proposta politica alternativa al sistema neoliberista. Allo stato il suo proponimento sembra destinato a fallire e con esso un possibile governo del 2023.
Il dopo Draghi sta preparando la stagione della destra. Passo dopo passo i protagonisti della sua “strana coalizione” stanno cambiando. Forse hanno capito che questa è una straordinaria occasione per prepararsi alla sfida che arriverà al più tardi nel 2023.
Il Movimento cinque Stelle ha vissuto per quasi un anno e mezzo senza leader, ha perso un terzo dei parlamentari, è preso in un vortice di discussioni su regole, piattaforme, garanti, pagamenti. Perché proprio ora lo spappolamento del Movimento cinque stelle, con l’esplosione di tutte le contraddizioni accumulate in questi anni, rende ancora più assurdo il sacrificio e più pesante il tributo, per il nostro senso critico, per la dignità delle istituzioni e per la decenza del discorso pubblico. Il Movimento sta per implodere come le Stelle dell’Universo?
Inoltre, non si può sottovalutare il fatto che le tendenze di una spinta partecipativa, l’aumento delle disuguaglianze socioeconomiche e i sentimenti di inquietudine e angoscia dei ceti popolari hanno alimentato movimenti populisti in vari Paesi europei. La democrazia parlamentare, invece, offre la possibilità di dialogare e di mettersi in gioco. In una democrazia l’emergenza e la progettazione del futuro chiedono ai partiti di costruire una partecipazione condivisa, con il coinvolgimento delle forze sociali e dei cittadini. Per rappresentare il popolo c’è bisogno di una legittimazione che si costruisce coltivando le relazioni. Quindi è necessario ripensare a una legge elettorale proporzionale, anche con sbarramento al 3%, con l’espressione della preferenza al candidato per un reale rapporto tra cittadino elettore e rappresentante.
Può piacere o meno. Ma la realtà è che, al momento, l’unica certezza della politica italiana è il governo Draghi. Tutto il resto è opinabile.