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Siamo realisti: costruiamo un mondo equo e solidale

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di Antonello Longo

direttore@quotidianocontribuenti.com

Quando diciamo “Sud” intendiamo Sud del mondo, Europa del Sud, Mezzogiorno d’Italia. Vorrei accennare, qui, soltanto al primo aspetto. E parto dalle conclusioni: secondo me non è democratica, non è riformista, meno che mai può essere progressista e di sinistra, una politica che non metta al centro della sua visione il riequilibrio tra Nord e Sud, che non sappia o, peggio, non voglia, indicare la strada per avviare il superamento di un gap troppo grande per essere sostenibile, di un divario colpevole, ingiusto, spietato, mostruoso, inaccettabile. Non una divisione geografica della Terra, ma economica.

Viviamo in un mondo spaccato in due: ricchezza e (presunto) sviluppo al Nord, povertà e sottosviluppo al Sud. Le super-potenze che in passato si contendevano le sfere di influenza (al tradizionale confronto tra Russia e Stati Uniti si è aggiunta prepotentemente la Cina) sotto forma di blocchi ideologici, oggi continuano a farlo soltanto nel nome dei più brutali interessi per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime e per la conquista di nuovi mercati, primi fra tutti, quelli del cibo e delle armi.

Alle grandi ricchezze di risorse naturali presenti in Africa, nel Sud-est Asiatico e in America Latina corrispondono economie fragili e Paesi poco sviluppati tecnologicamente. Mentre la crisi delle nascite caratterizza le società “sviluppate”, nel Sud all’esplosione demografica corrispondono popolazioni afflitte da miseria, denutrizione, analfabetismo. Sono quei Paesi dominati in passato dalle potenze coloniali che, solo dopo la seconda guerra mondiale, hanno raggiunto l’indipendenza formale ma, in realtà, vivono sotto il dominio, non meno ferreo ed impietoso, delle multinazionali.

Sono quegli Stati i cui confini furono disegnati dai “decolonizzatori” col righello, tracciando linee rette in modo da fare esplodere tutti i problemi etnici, i conflitti religiosi, le guerre civili.

Non c’è viaggio organizzato, documentario, reportage, film che tenga: noi che viviamo, bene o male, nell’Occidente industrializzato, stentiamo a farci un’idea precisa delle condizioni di vita di una grandissima parte dell’umanità, cui manca cibo, acqua potabile, veri ospedali, dove la speranza di vita (si leggano le statistiche dell’OMS, per favore) scende ogni anno di più. Ai giovani, e soprattutto ai bambini, è negato il diritto alla salute e all’istruzione.

Capiamoci bene: il mondo, in queste condizioni, è una polveriera che esplode nei conflitti regionali e nel terrorismo, ma è sempre pronto a esplodere su scala globale. La pandemia aggrava un quadro già fosco.

E ciò non avviene per caso, ma perché gli interessi economici e di potere di alcuni prevalgono cinicamente, ancora e sempre, sugli interessi della totalità degli abitanti della Terra (sì, compresi ricchi e meno poveri, che vedono minacciato il loro benessere).

Se “globalità” vuol dire mercato mondiale libero, circolazione dei capitali, delle idee, delle persone, delle tecnologie, cerchiamo di capire perché il divario tra Nord e Sud continua inarrestabilmente a peggiorare, indaghiamo sui meccanismi con i quali viene imposto ai paesi poveri di importare i beni che essi sarebbero in grado di produrre in modo autonomo, analizziamo a fondo le politiche del WTO (World Trade Organization, organizzazione mondiale del commercio) e del FMI (fondo monetario internazionale), organi nati per garantire parità di condizioni, finanziarie e commerciali, nella partecipazione di ogni Stato al mercato globale.

Urgono proposte concrete su come fermare lo stravolgimento climatico e le desertificazioni, tra le principali cause di povertà e di bibliche migrazioni, come garantire una prospettiva di libertà e autodeterminazione ai paesi poveri ed offrire loro valide alternative alle grandi multinazionali, piuttosto che continuare ad alimentare i governi dittatoriali corrompendoli in cambio della mano libera nello sfruttarne suolo e sottosuolo.

Comincerei dal cercare gli strumenti per impedire, piuttosto che per imporre, come invece avviene, che il 90% dei finanziamenti internazionali ritorni alle economie del Nord sotto forma di commesse per l’acquisto di armi e di cibo.

Mi concentrerei sulla ricerca dei modi più adatti per impedire lo sfruttamento del lavoro minorile, per garantire l’impiego di materie prime rinnovabili, per destinare investimenti alla formazione, all’istruzione e alla ricerca (indipendente), per incrementare la cooperazione tra produttori.

Senza politiche di questo tipo le migrazioni non potranno essere governate né tanto meno fermate, non almeno con mezzi economicamente ed umanamente sostenibili. Ma non cadiamo, per favore, nella trappola di ridurre la problematica dei rapporti Nord-Sud alla questione dell’accoglienza dei migranti, allo psicotico confronto tra buonismo e cattivismo.

Il fenomeno migratorio, di natura strutturale, si affronta programmando e regolando i flussi e preparando le società occidentali ad accogliere in modo civile. Senza aperture indiscriminate ma senza violare il diritto del mare e dell’umanità, senza l’inutile e pagliaccesca grinta persecutoria che piace tanto alla brava gente ma che, nella realtà, mette a maggiore rischio proprio l’ordine e la sicurezza che si dice di voler assicurare. Ma forse la mira è proprio questa, creare situazioni e sensazioni d’allarme per alimentare il consenso alla peggiore propaganda demagogica.