di Loan
Il 6 aprile del 1924 si tennero in Italia le lezioni politiche generali; le prime sotto il governo Mussolini ed anche le ultime a sovranità popolare con una pluralità di liste di partito, prima della definitiva instaurazione del regime fascista come dittatura.
Si era votato con la cosiddetta legge Acerbo, una forma di proporzionale con premio di maggioranza alla lista più votata, che era stata approvata nel novembre del ‘23 in un clima parlamentare di aperta intimidazione.
E in un clima di violenza, intimidazione e brogli perpetrati impunemente dai fascisti si erano svolti sia la campagna elettorale che il voto (soltanto maschile) degli italiani.
Il “listone” (lista nazionale”) messo insieme da Mussolini aveva riportato il 60% dei voti (poco più di 4,3 milioni di suffragi su 7,6 milioni di votanti) con 355 seggi (su 535) alla Camera (il Senato a quel tempo era di nomina regia). Secondo il Partito Popolare di Don Sturzo (9% e 39 seggi), terzo il Partito Socialista Unitario di Turati, Matteotti, Treves e Modigliani (5,9% e 24 seggi), quarto il Partito Socialista Italiano di Menotti Serrati (5% e 22 seggi).
Con la legge Acerbo e la schiacciante vittoria delle elezioni, Mussolini pensò di avere sottomesso ai suoi voleri anche la Camera dei deputati, cioè l’organo costituzionale che da sempre era stato oggetto del suo dileggio e meno si confaceva al suo regime. Per inaugurare il nuovo Parlamento “fascistizzato” scelse la data del 24 maggio, anniversario dell’entrata dell’Italia in guerra, pur essendo distante un mese e mezzo dalle elezioni.
La seduta del 30 maggio 1924, presente Mussolini sul banco del governo, fu convulsa. Il presidente neoeletto, Alfredo Rocco, ricevuta dalla giunta delle elezioni la relazione di convalida in blocco di tutti gli eletti della maggioranza, dopo averne letto rapidamente i nomi, la mise ai voti. Ciò prese alla sprovvista le opposizioni che non si aspettavano di dover parlare della convalida e in modo tanto sbrigativo. L’amendoliano Enrico Presutti propose un rinvio per consentire ai deputati di vagliare le tante proteste per brogli elettorali in varie parti del Paese.
Parlò anche il socialdemocratico Amedeo Modigliani, che chiese una relazione scritta da parte della giunta delle elezioni. Ma il presidente Rocco si affrettò a mettere ai voti la sospensiva che, naturalmente, venne respinta.
Perduta la battaglia procedurale, non restava che aprire la discussione su eventuali contestazioni, ma nessuno dei deputati dell’opposizione era preparato per documentarle.
Solo Giacomo Matteotti, deputato del Polesine e segretario dei socialdemocratici del PSU, aveva con sé gli appunti che si era fatto mandare dalle sezioni del partito con notizie e dati su alcuni casi di irregolarità legati al clima di sopraffazione in cui si erano svolte le elezioni.
Com’era nel suo stile, Matteotti entrò subito nel merito, tralasciando ogni premessa: “Noi abbiamo avuto da parte della giunta delle elezioni – esordì – la proposta di convalida di numerosi colleghi. Nessuno certamente degli appartenenti a questa Assemblea, all’infuori credo dei componenti della giunta delle elezioni, saprebbe ridire l’elenco dei nomi letti per la convalida; nessuno né della Camera né delle tribune della stampa”! E già questa prima frase provocò vivaci interruzioni dalla destra e dal centro.
“Comunque – proseguì Matteotti – in questo momento non esiste da parte dell’Assemblea una conoscenza esatta dell’oggetto su cui si delibera. Soltanto per alcuni dei nomi, che abbiamo potuto afferrare dalla lettura, possiamo immaginare che essi rappresentino una parte della maggioranza. Or contro la convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti… costesta lista non li ha ottenuti, di fatto e liberamente, ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessaria per conquistare, anche sotto la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono attribuiti! Potrebbe darsi che i n omi letti dal presidente siano di quei capilista che resterebbero eletti anche se, invece del premio di maggioranza, si applicasse la proporzionale pura in ogni circoscrizione. Ma poiché nessuno ha udito i nomi, e non è stata premessa alcune affermazione generica di tale specie, probabilmente tali tutti non sono, e quindi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione della maggioranza”.
Per comprendere le parole di Giacomo matteotti bisogna ricordare il meccanismo stabilito dalla legge Acerbo, che assegnava un premio di maggioranza alla lista più votata purché avesse superato il 25%, attribuendole i due terzi dei seggi (n.d.r. nella fantomatica “seconda Repubblica” abbiamo visto perfino di peggio. Ma questa è un’altra storia…)
I deputati fascisti furono colti di sorpresa dalla concisione e dall’efficacia del ragionamento e aumentarono schiamazzi e urla minacciose. Da quel momento in poi il discorso di Matteotti fu interrotto ad ogni frase, fino a diventare tumulto alla denuncia delle violenze durante la campagna elettorale e delle irregolarità durante le votazioni: candidato bastonati, seggi elettorali composti tutti da fascisti, rappresentanti di lista cacciati dai seggi e così via.
Quando dai banchi della maggioranza gridarono che otto milioni di italiani si erano recati alle urne, il segretario dei socialisti riformisti replicò senza scomporsi che gli elettori sapevano bene che, se il voto fosse fosse risultato contrario al governo, l’esito sarebbe stato annullato con la forza dalla milizia e dal partito fascista. “Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse”, queste le parole pronunciate dall’oratore. Mussolini, visibilmente contrariato, assentiva platealmente scuotendo il capo.
L’intervento di Giacomo Matteotti, a causa delle continue interruzioni, durò un’ora e mezza. Alla fine, stremato, fu circondato dai colleghi del gruppo dei socialisti unitari che si congratularono, Filippo Turati in testa, ma Giovanni Cosattini, che per primo gli si avvicinò per complimentarsi, si sentì dire sottovoce: “Ed ora preparatevi a farmi l’elogio funebre!”
Matteotti aveva parlato essendo perfettamente consapevole che Mussolini non era uomo da lasciar passare senza vendicarsi una denuncia così documentata e tempestiva della illegalità della vittoria elettorale fascista.
Pochi giorni dopo, alle 16,15 del 10 giugno 1924, poco dopo essere uscito di casa per recarsi in Parlamento, cinque membri della “polizia politica” di Mussolini, scesi da una Lancia Kappa nera accostata al bordo della strada, presero a forza Matteotti spingendolo dentro la vettura, dove fu ucciso a coltellate nel corso della furibonda colluttazione.
Il cadavere di Giacomo Matteotti fu ritrovato, per caso, dal cane di un brigadiere dei Carabinieri in licenza, soltanto nella mattinata del 16 agosto, nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano, a 25 chilometri dalla capitale.