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Così la pandemia ha messo in crisi il lavoro 

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AGI – La pandemia ha messo in crisi il lavoro, soprattutto quello delle donne e degli appartenenti alle fasce più deboli della società, giovani, anziani e stranieri. E il rischio ora è quello di un ripiegamento, di una rinuncia al lavoro, di un rifiuto delle dinamiche che portano a cercare e trovare un lavoro. È questo il tema di fondo del nuovo rapporto AGI/Censis, dal titolo “Il lavoro inibito: l’eredità della pandemia”, nuovo capitolo del progetto ‘Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020/21’, curato dall’istituto di Piazza di Novella per l’Agenzia giornalistica Italia.

Il rischio del ripiegamento

Nel 2020 sono stati 456.000 gli occupati in meno rispetto all’anno precedente (-2,0%). Ma è significativo anche l’aumento degli inattivi: 711.000 in più. Si tratta di una quota importante della popolazione che non colloca il lavoro nel proprio orizzonte. Fra gli inattivi sono inclusi circa 3 milioni di persone che potrebbero lavorare. Questo segmento è aumentato in un anno di 217.000 unità.

La ricerca di un nuovo lavoro – sia nel caso di persone che il lavoro l’hanno perso, sia nel caso di persone che si apprestavano a cercarlo per la prima volta o dopo un periodo di assenza dal mercato del lavoro – è stata scoraggiata da un contesto percepito come troppo complesso per poter essere affrontato con i propri mezzi e con le proprie risorse.

Gli effetti asimmetrici sui segmenti deboli

Nel 2020 hanno perso il lavoro 185.000 persone con un’età tra i 18 e i 29 anni: -6,4% rispetto al -2,0% complessivo. E sono aumentati di 203.000 unità i giovani inattivi (+5,6% rispetto al +2,7% complessivo). I giovani che non cercano lavoro hanno raggiunto la soglia dei 3 milioni. Per le donne la dinamica è stata di poco migliore. Le occupate si sono ridotte del 2,5%, mentre sono 272.000 in più le donne che hanno scelto di non cercare lavoro, arrivando alla fine del 2020 a più di 14 milioni. Tra gli stranieri gli occupati si sono ridotti di 159.000 unità e gli inattivi sono aumentati del 15,3% (199.000 in più). Dietro questa categoria si nasconde una quota di lavoro non dichiarato o «sommerso». Sono poco più di un milione le famiglie italiane con occupati irregolari e per il 33% si tratta di stranieri.

I working poor

L’impatto della pandemia sul reddito delle famiglie italiane è stato rilevante ma si è distribuito in maniera diversa soprattutto in funzione delle restrizioni alle attività produttive imposte dalle misure di contenimento del contagio. Il 5,5% delle famiglie ha visto ridursi il reddito di più del 50% rispetto a prima della pandemia, il 9,1% ha dichiarato una riduzione tra il 25% e il 50%, il 16% una riduzione inferiore al 25%. Il 43,2% dei lavoratori autonomi ha dichiarato invariato il proprio reddito rispetto a prima della pandemia, contro il 66,5% dei lavoratori dipendenti. Se si sommano le famiglie che hanno comunque riscontrato una perdita di reddito, quelle dei lavoratori dipendenti raggiungono il 27,9%, ma la percentuale raddoppia tra quelle dei lavoratori autonomi (54,7%). In media, 3 famiglie su 10 hanno subito una riduzione del reddito. Già prima della pandemia, il «lavoro povero» (con meno di 9 euro all’ora) riguardava quasi 3 milioni di occupati, di cui il 53,3% era rappresentato da uomini e il 46,7% da donne. Si trattava di oltre un milione di lavoratori giovani (con meno di 30 anni) e di 1,4 milioni con un’età tra i 30 e i 49 anni. Il 79% apparteneva alla categoria degli operai (2,3 milioni) e il 12,3% a quella degli impiegati.

Il problema del lavoro autonomo e professionale

La rarefazione delle opportunità di crescita ha avuto un riflesso immediato sull’occupazione indipendente. Nel periodo 2015-2020 la riduzione del lavoro indipendente arriva a mezzo milione, mentre nello stesso periodo l’occupazione in generale aumentava di 306.000 unità. L’anno del Covid ha condizionato fortemente l’andamento del lavoro indipendente, determinando una riduzione complessiva di 158.000 occupati, di cui 59.000 lavoratori autonomi e 38.000 liberi professionisti.

I rischi dello smart working

Una recente indagine del Censis ha misurato i maggiori rischi associati allo smart working secondo l’opinione dei lavoratori. Innanzitutto, la perdita di socialità garantita dal rapporto diretto e quotidiano con il colleghi (48,8%), poi il fatto di dover lavorare in un contesto inadeguato in termini di disponibilità di spazio e di dotazioni (40,4%), il pericolo di lavorare più a lungo dell’orario previsto e di non poter più controllare il confine tra lavoro e non lavoro (36,3%), l’assunzione dei costi legati alla connessione e ad altri servizi che la postazione di lavoro richiede (29,7%), le minori opportunità di crescita professionale e di carriera (22,0%).

Source: agi


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