di Andres
La mattina del 17 maggio 1972, il commissario Luigi Calabresi, viceresponsabile della sezione politica alla questura di Milano, trentacinquenne, fu ucciso da un sicario che lo colpì alle spalle con tre colpi di pistola, mentre usciva da casa sua.
Il giorno dopo, sulle pagine del Corriere della Sera, Indro Montanelli, con un editoriale “Il contagio della violenza”, così scriveva: “L’efferato episodio di via Cherubini lo dimostra. La tesi che Calabresi fosse un persecutore d’innocenti non guadagna credibilità dal fatto che questi innocenti non abbiano avuto simili vindici. La pretesa «giustizia» di cui egli sarebbe rimasto vittima ne ha fatto soltanto un funzionario caduto nell’adempimento del servizio, cui è per tutti doveroso rendere omaggio”
Calabresi era un questurino odiato. L’assassinio era da collegarsi alle sue indagini sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e, soprattutto, alla morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da un ufficio al quarto piano della questura di Milano la sera del 15 dicembre. “Se mi uccidono – aveva detto – non vedrò in faccia il mio assassino”. E così avvenne. Lo odiavano perché ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Pinelli ed era nel mirino della sinistra extraparlamentare per tante altre sue indagini, comprese quelle sulle Brigate Rosse.
La storia della morte di Pinelli e di Calabresi divennero un tutt’uno. Il giornale ‘Lotta Continua’ condusse una battaglia a tutto campo contro il Commissario.
Il magistrato Giuseppe D’Ambrosio, ai quali furono affidate le indagini, concluse che la caduta dell’anarchico era stata causata da un malore. Non era stato suicidio né un omicidio. D’Ambrosio anni dopo sostenne pubblicamente che Calabresi “non fu responsabile in alcun modo. E non fu responsabile neppure di maltrattamenti”. A convincerlo il fatto che Calabresi aveva un rapporto confidenziale con Pinelli (tra i due anche uno scambio di libri in dono), tant’è che dal centro anarchico dove si trovava, gli aveva chiesto di seguirlo in Questura con il suo motorino. Nessuna violenza, niente manette. Non era nella stanza quando Pinelli volò dalla finestra, precipitando nel cortile sottostante.
Nei primi anni Settanta la campagna diffamatoria contro Calabresi divenne molto forte e proseguì anche dopo la sua morte. I militanti di Lotta Continua distribuirono volantini in cui si inneggiava alla giustizia proletaria contro il commissario Calabresi: “un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”.
L’omicidio del commissario Luigi Calabresi sembrava essere destinato a restare un delitto insoluto, gli inquirenti brancolavano nel buio. Fino al luglio 1988 (dopo 16 anni) quando un oscuro ambulante, tale Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, confidò ad un parroco di aver avuto un ruolo nell’omicidio Calabresi. Dai Carabinieri si autoaccusò del delitto ma soprattutto chiamò in causa i compagni di Lotta Continua: come esecutore Ovidio Bompressi e come mandanti i leader del movimento Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani.
Il lungo iter giudiziario si concluse con condanne per tutti in via definitiva. Sofri ha sempre negato il suo coinvolgimento e ha rinunciato alla grazia.
In via Cherubini a Milano c’è una targa che ricorda il commissario Luigi Calabresi, insignito della medaglia d’oro al valor civile. Uno “sbirro” sui generis.
Tanti analisti e commentatori ritengono che durante la “Lunga notte della Repubblica”, con 2712 attentati, 351 morti, 768 feriti, tanti giovani processati e condannati per banda armata, anche Luigi Calabresi verrà stritolato dagli eventi e lasciato da solo dallo Stato, che si autoassolse e allontanò da sé l’accusa di stragismo e diede impasto come agnello sacrificale un suo umile servitore.
“Gemma, ricordalo: menti di destra, manovali di sinistra. Aveva capito che chi tirava i fili era gente che sedeva negli scranni più alti della politica, gente seduta dietro la scrivania: gli strateghi della tensione, appunto”, scrive la moglie nel libro ‘Mio marito, il commissario Calabresi, Edizioni Paoline, 1990’
Alla campagna diffamatoria contro di lui, Luigi Calabresi era solito dire: “Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere…”.