di redazione
Il referendum abrogativo è previsto dall’articolo 75 della nostra Costituzione, il quale dispone che si procede a referendum popolare per abrogare, in tutto o in parte, una legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori oppure cinque Consigli regionali.
Tutti le leggi, quindi, o gli atti aventi forza di legge, possono essere sottoposte a referendum abrogativo, con eccezione delle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto e di ratifica dei trattati internazionali.
Perché la proposta di abrogazione venga approvata è necessario che al referendum partecipi, andando a votare, la maggioranza (quorum del 50%+1) degli aventi diritto e che, naturalmente, i Sì alla proposta di abrogazione raggiungano la maggioranza dei voti validamente espressi.
Il 12 e 13 maggio del 1974 le italiane e gli italiani furono chiamati per la prima volta a votare per un referendum abrogativo.
Si trattò di dire No all’abrogazione della legge che aveva istituito il divorzio (legge 1° dicembre 1970 n. 898, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) oppure rispondere Sì all’eliminazione del nuovo istituto dalla legislazione italiana.
La legge sul divorzio, detta Fortuna-Baslini, dal nome dei due deputati, il socialista Loris Fortuna e il liberale Antonio Baslini, primi firmatari delle due proposte di legge originarie, poi unificate in un unico testo.
La legge che istituì il divorzio era stata approvata definitivamente dalla Camera, dopo un iter lunghissimo, il primo dicembre del 1970 con 319 voti favorevoli e 286 contrari (su 605 votanti e presenti in Aula), al termine di un’estenuante seduta notturna conclusasi alle 5,40 del mattino.
L’iniziativa del referendum per abrogare la legge fu promossa dalla Democrazia Cristiana, guidata allora da Amintore Fanfani.
Si recarono alle urne 33.023.179 elettori, pari all’87,72% degli aventi diritto. Il 59,26% votò No, esprimendosi contro l’abrogazione della legge istitutiva del divorzio. I voti per il Sì all’abrogazione furono il 40,74%, pari a 13.157.558 di voti.
Così come la legge istitutiva del divorzio aveva segnato una profonda svolta nella società e nel costume italiani, il trionfo del No nel referendum sul divorzio, che permise alla legge di restare in vigore malgrado l’ostilità della Chiesa Cattolica e della Democrazia Cristiana, a quel tempo saldamente maggioranza relativa nel Paese, rappresentò per l’Italia una vera e propria rivoluzione di carattere politico e culturale.
La campagna referendaria si svolse in un clima animatissimo, di battaglia frontale, con un diluvio di manifesti e di slogan. Si confrontarono, da una parte la Dc, il Msi e i Comitati civici, promotori del “Sì”, all’insegna dell’integrità della famiglia, dall’altra socialisti, comunisti, radicali, socialdemocratici, repubblicani, liberali, sostenitori del “No”schierati a difesa della libertà di scelta. La preoccupazione più grande dei partiti a favore dell’istituto era legata alla formula abrogativa: gli italiani avrebbero infatti potuto confondersi e votare “sì” pensando di contribuire alla causa del divorzio. Per questo motivo i manifesti dei “no” apparivano più semplici e meno evocativi, con l’utilizzo di parole come “libertà” e “scelta” accanto alla spiegazione del voto.
Il grande sconfitto, sul piano politico, fu il segretario della Democrazia cristiana Amintore Fanfani che aveva fortemente voluto il referendum. Il segretario del Pci Enrico Berlinguer, parlò invece di “grande vittoria della libertà, della ragione e del diritto, una vittoria dell’Italia che è cambiata e che vuole e può andare avanti”.