La Resistenza oggi è solo intellettuale e civile, i cinquantenni o si omologano o si marginalizzano. Autonomia di pensiero, tolleranza verso il diverso, parità di chance, oltre il concetto restrittivo di “genere”, implicherebbero educare i giovani alla riscoperta della militanza civica come palestra sociale
di Fausto Fareri
Festeggiamo quest’anno, ancora una volta, un 25 Aprile che è in cattività, dove un Paese non guarda con fiducia al futuro. Ci chiediamo, da cittadini che lavorano, cosa faranno i nostri figli e nipoti, chi curerà i nostri vecchi.
Il senso di rinascita che alimentò gli anni ’43 –’45 si è spento da tempo, dopo la normalizzazione dei Novanta, in cui il maggioritario ha dato spunto ai neo-partiti basati su carisma ed appartenenza corporativa. La nazione nata dalla Resistenza, eco lontana del sogno repubblicano del Mazzini, da circa un trentennio si è fermata su una mediatica strategia di “inertizzazione” delle spinte emancipatrici della classe lavoratrice, non più coesa perché i “lavori” sono ormai uno status sociologico polivalente, di cui il contratto collettivo ed i sindacati difendono la valenza minima di sussistenza dignitosa. L’art. 36 della Costituzione, sulla giusta retribuzione, non si attualizza, soffre il globalismo rampante ed ora la congiuntura pandemica. Ma è un alibi comodo per le oligarchie finanziarie ed industriali del sistema Italia. Esse vivono in un limbo che non vede altro che un irrigidirsi di costringenti manovre, volte ad impedire l’autodeterminazione co-gestionale nelle grandi imprese.
Uomini come Buozzi, La Malfa, Cuccia, anche se da opposti fronti, compresero il ruolo delicato di una politica industriale partecipata, ma il tramonto delle Partecipazioni Statali ha dato il colpo di grazia alla socializzazione capitalistica.
La Resistenza oggi è solo intellettuale e civile, i cinquantenni o si omologano o si marginalizzano. Autonomia di pensiero, tolleranza verso il diverso, parità di chance, oltre il concetto restrittivo di “genere”, implicherebbero educare i giovani alla riscoperta della militanza civica come palestra sociale. Due erano le figure, Il prete tutore sociale e il dirigente di partito, poi l’attivista e il volontario.
Nel silenzio di decenni, la Resistenza di un Calamandrei o di un Valiani rimane come monito verso la barbarie, ma Valiani insisteva sull’autonomia come liberazione spirituale e materiale. Chi raccoglie questo monito in una società che dell’eterodirezione telematica, del controllo ha fatto un criterio di selezione silenziosa ma inesorabile?
Non si capisce che creare ghetti e marginalizzazione ha un costo umano, sociale e di bilancio.
Ma ha anche un senso, inesorabile, creare quegli antagonisti che, non educati alla non-violenza, “potrebbero” sovvertire la convivenza civile.
Di fatto, ogni giorno i diritti politici e sociali migrano verso una formalizzazione che li svuota, perché una tutela che non segua l’evoluzione emancipatrice dell’esistere concreto è solo “conformazione”.
È con questo spirito che l’ANPI, i sindacati, i diversi Comitati si muoveranno per arginare la deriva sovranista e la cultura del “no” al diverso. È lì che si misurerà nel decennio a venire la civiltà della società italiana, intrisa da troppo tempo di un pensiero conservatore che altera i presupposti per un progresso dei ceti subalterni ad una idea di “centralismo moderato” che serpeggia tra le file parlamentari.
Che sia un 25 Aprile di riscatto, una domenica di dibattiti e non di “ retorica”.
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