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Cosa scrivono gli altri (Domani – Lobby, società, fondazioni La politica è proprietà privata)

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Il 20 febbraio 2014 è il giorno del funerale del finanziamento pubblico ai partiti. Anche se il rito funebre, a dire il vero, era iniziato molto tempo prima nelle “piazze del Vaffa” di Beppe Grillo. I cittadini stanchi delle frodi e delle ruberie di alcuni chiedevano giustizia sommaria per tutti, una soluzione semplice e immediata. La narrazione contro il finanziamento si è irrobustita con gli scandali dei fondi sottratti dal tesoriere della Margherita (il caso Lusi) e, subito dopo, con quello dei rimborsi elettorali ottenuti dalla Lega di Umberto Bossi e Francesco Belsito che ha dato origine alla saga dei 49 milioni di euro da restituire allo stato.

Avanti i populisti

Così per prevenire altri casi Lusi-Belsito anche il centrosinistra si è fatto contagiare dal qualunquismo. La medicina? Cancellare i rimborsi ai partiti. Infatti la legge che li archivia reca la firma del Partito democratico con Enrico Letta presidente del Consiglio. Letta, ora destinato alla segreteria del Pd dopo le dimissione di Nicola Zingaretti, all’epoca aveva annunciato entusiasta il raggiungimento dell’obiettivo: «Quando il governo è nato tra le priorità aveva l’abolizione del finanziamento con una riforma».

La riforma approvata definitivamente della Camera nel febbraio 2014 prevedeva una riduzione graduale, con il 2017 ultimo anno di erogazione. In parallelo aveva previsto per i cittadini la possibilità di sostenere i partiti attraverso il 2 per mille da destinare in sede di dichiarazione dei redditi. La politica delegava così alla cittadinanza il compito di decidere chi sovvenzionare e chi no. Chi ha più seguaci, purché questi si ricordino di indicare la destinazione del 2 per mille, incassa di più, i più piccini e con meno fan ottengono meno risorse. Inoltre anche per le donazioni private è stata prevista una detrazione sostanziosa così da invogliare imprenditori, società, multinazionali a colmare il vuoto lasciato dallo stato.

Il primo corollario dell’operazione politica elaborata dal Partito democratico con Letta premier è stato la dipendenza della politica dalle elargizioni dei privati, che in quanto tali finanziano per tutelare interessi particolari non certo per amor di patria. Il rischio di conflitti di interesse è aumentato a tal punto che si è diffusa la “moda” delle fondazioni e delle associazioni politiche, secondo corollario della criminalizzazione e della fine del sostegno pubblico. Associazioni e fondazioni che non hanno obblighi stringenti di trasparenza come i partiti, che al contrario devono presentare bilanci veri e se li ritoccano incorrono in sanzioni, indagini e processi che possono portare a sequestri clamorosi (come quello dei famosi 49 milioni della Lega).

Il partito dei miliardari

Chi ha risentito meno di questo cambiamento epocale è stato il partito fondato dal ricchissimo Silvio Berlusconi. Per questo Forza Italia meriterebbe un discorso a parte perché, fin dagli albori, ha avuto un capo politico che ha messo di tasca propria enormi somme: dal 2008 a oggi, certificano i documenti della tesoreria della Camera, il Cavaliere e famiglia, con anche società del gruppo, hanno versato a FI quasi 107 milioni di euro. Insomma, Silvio pioniere e re del partito privato. Di una politica fatta solo da chi può permetterselo. Un monito lanciato da Pier Luigi Bersani quando Renzi ha iniziato a sostenere una politica senza più fondi pubblici. «La politica non diventi solo dei miliardari», diceva preoccupato.

Bilanci rivelatori

I bilanci dei partiti raccontano meglio delle dichiarazioni rassicuranti dei leader le conseguenze dirette della fine del finanziamento pubblico. Dall’analisi dei rendiconti degli ultimi anni dei partiti più strutturati sui territori come Pd e Lega emerge un progressivo impoverimento. A partire dalla voce “contributi dallo stato, rimborsi elettorali”. Nel 2013 i democratici avevano contabilizzato entrate per quasi 25 milioni di euro. Ridottissima la quota di donazioni fatte da “persone giuridiche”, cioè da società: 165mila euro. Il primo anno senza contributo statale la situazione è cambiata radicalmente: il 2 per mille incassato è stato pari a poco meno di 8 milioni di euro, i contributi da privati sono rimasti pressoché identici, con la differenza che nel frattempo erano nate, e andavano a gonfie vele, alcune fondazioni come Open di Matteo Renzi ed Eyu, anch’essa di matrice renziana, ora messa in liquidazione dopo le ultime modifiche introdotte nello statuto del Pd durante la segreteria Zingaretti che riconoscono come unica fondazione politica del partito quella chiamata “Costituente”, che avrebbe dovuto funzionare una scuola politica.

Negli stessi anni in cui nelle casse del Partito democratico affluivano sempre meno, fino a scomparire, i rimborsi elettorali, Open e Eyu registravano incassi importanti. Open è stata la macchina del consenso personale di Renzi da quando è diventato segretario: mentre le donazioni private ricevute dal partito calavano di un terzo, svelano i bilanci, si triplicavano quelle incassate dalla sua fondazione. Dal 2013 al 2016 le contribuzioni liberali ricevute dalla fondazione Open sono passate da 672mila a 1,9 milioni di euro, mentre quelle incassate dal Pd sono calate dagli 11,6 milioni del 2013 agli 8,1 milioni dell’anno scorso.

Open però è finita sotto inchiesta per finanziamento illecito. Secondo la procura è un’articolazione del Partito democratico che il “giglio magico” di Renzi ha usato per incassare donazioni. Un danno anche per il Pd, la cui vita associativa non ha più potuto beneficiare di quei fondi. I soldi di Open, per intenderci, non venivano usati per organizzare le feste dell’Unità ma per la kermesse renziana: la Lepolda. È la vittoria del partito personale, che esiste al di là della storia del partito stesso.

Non solo Open

Dopo la riforma Letta c’è stata una moltiplicazione di fondazioni, associazioni, comitati. E il più delle volte queste realtà, camuffate da organizzazioni culturali, non erano altro che bacini creati ad hoc per raccogliere fondi da aziende o da ricchissimi imprenditori con interessi rilevanti appesi a decisioni politiche da prendere in parlamento, nei consigli regionali o comunali.

Nella giungla di sigle nate successivamente all’approvazione della legge Letta spicca l’associazione Più Voci, costituita nel 2015 dal tesoriere della Lega, Giulio Centemero. Associazione culturale, domiciliata in un anonimo studio professionale di Bergamo, di proprietà dei commercialisti del partito poi finiti sotto inchiesta per distrazione di fondi pubblici regionali. Tra il 2015 e il 2016 ha incassato oltre 300mila euro. La maggior parte sono versamenti di Luca Parnasi, il costruttore romano accusato di corruzione nell’indagine sul nuovo stadio della Roma, e di Esselunga, il colosso della grande distribuzione. Negli stessi anni, si legge dai rendiconti della Lega nord, le donazioni private dirette al partito hanno superato di pochissimo il muro degli 80mila euro. Le donazioni ricevute da Più Voci sono, secondo i magistrati, finanziamento illecito. Centemero è sotto processo a Milano e il 25 marzo, a Roma, i giudici decideranno se rinviarlo a giudizio anche per i 250mila euro ricevuti dal costruttore romano. Si tratta di un remake in casa Lega: durante Tangentopoli Bossi e l’allora tesoriere, Alessandro Patelli, erano stati giudicati colpevoli per un finanziamento di importo inferiore arrivato da Enimont. L’abolizione dei rimborsi elettorali avrebbe dovuto bonificare la palude degli interessi privati ma, come dimostra il caso Lega, non ha funzionato. Anzi, ha privilegiato proprio i canali privati di finanziamento.

Stessa sorte per la fondazione Change, nata per sostenere la corsa di Giovanni Toti a presidente della Liguria. In due anni ha incassato 792mila euro da armatori, società della sanità privata e petrolifere. Anche su Change c’è un’indagine. La procura di Genova, con il procuratore aggiunto Francesco Pinto e la Guardia di finanza, sta ricostruendo tutti i flussi finanziari ed eventuali conflitti di interesse. Change non esiste più, ora Toti ha un movimento, “Cambiamo”, affiancato dal Comitato Giovanni Toti utilizzato per le ultime elezioni regionali. I finanziatori sono aziende private con interessi nel porto del capoluogo ligure e nel territorio di cui Toti è governatore.

I bilanci dei partiti restituiscono anche un’altra certezza: il 2 per mille che avrebbe dovuto rivoluzionare il sistema non è in grado di assicurare sufficienti risorse a partiti radicati con macchine organizzative complesse. Un esempio: nel 2011 la Lega aveva ottenuto 17 milioni di euro di rimborsi, a fronte di un risultato elettorale nel 2008 pari all’8 per cento; nel 2019, con un partito al 17 per cento e senza più sostegno pubblico, dal 2 per mille il partito di Salvini ha ottenuto 3 milioni. Lo stesso vale per il Pd: nel 2018 dal 2 per mille ha ricevuto poco meno di 8 milioni.

2 per mille

Da questo processo non sono esclusi i Cinque stelle. Poco si conosce dei finanziatori privati, prevale l’ambiguità sul ruolo della Casaleggio Associati, impresa privata che fa affari con altri privati, spesso interessati a specifiche leggi e norme da approvare. Se sappiamo chi versa al Movimento, iscritti e parlamentari, non conosciamo i nomi dei clienti che alimentano gli affari di Davide Casaleggio e della sua società, il laboratorio politico del Movimento.

Di certo c’è che la privatizzazione della politica iniziata con il partito personale di Berlusconi è stata definitivamente legittimata da una legge prodotta dal centrosinistra, voluta da Enrico Letta, invocato adesso per salvare il Pd dal baratro.