Uno studio di Voxeu ha misurato gli effetti sulla ricchezza nazionale di cinquanta esecutivi catalogati come populisti (da Trump a Bolsonaro, passando per Tsipras e Berlusconi). La miscela di protezionismo, esplosione del debito e corsa dell’inflazione si è rivelata fallimentare
Di Maurizio Ricci
Il populismo fa danni. Seri, concreti, misurabili, destinati a pesare per anni. Danni alla democrazia, come pensano in molti? I populisti stessi lo negano, anche se, su 41 regimi populisti degli ultimi 50 anni, solo 9 si sono conclusi con elezioni regolari e senza drammi (nell’ultimo caso, con Trump, il finale è regolare, ma il dramma non è mancato). Tuttavia, misurare il danno, ad esempio, di una minore indipendenza dei giudici non è facile. Mentre è facile misurare il Pil. E il risultato è che i populisti, nonostante inneggino con passione allo sviluppo, fanno male al prodotto interno lordo. Altro che ricette-miracolo per rilanciare la crescita. In media, la differenza fra governo populista e no si traduce in un 10 per cento di Pil in meno nell’arco di 15 anni. L’economia populista è una economia a scendere.
Manuel Funke, Moritz Schularick e Cristoph Trebesch, i tre studiosi tedeschi che hanno pubblicato la loro ricerca su Voxeu, sono giunti a questa conclusione esaminando i risultati di 50 governi populisti, che si sono succeduti nel mondo fra il 1900 e il 2018. Il problema, con questo tipo di analisi a vasto raggio, è la definizione di partenza. Funke e i suoi colleghi, in breve, identificano come populisti i governi che fioriscono sulla contrapposizione fra “noi” (il Popolo) e “loro” (le Elites). Facile vedere in controluce la figura di Salvini, ma la definizione viene applicata anche ad un premier di sinistra, come il greco Tsipras. In ogni caso, per l’Italia ci sono i governi Berlusconi, accanto a Trump e a Bolsonaro. Ma non ci sono né Reagan, né Putin.
Una volta definito il perimetro della banca dati, come controllare le prestazioni delle economie? Lo studio registra che, sotto un governo populista, il paese, in media, perde l’1 per cento del Pil ogni anno, rispetto sia al trend a lungo termine che offriva prima dell’insediamento del regime populista e sia anche all’andamento contemporaneo dell’economia mondiale. Il paese, in buona sostanza, arretra. L’elemento più interessante della ricerca è che questo calo non è una frenata e basta. E’, piuttosto, una corrosione lenta, ma duratura, dell’economia e degli ingranaggi che la percorrono e la muovono. Il danno, infatti, si registra non solo fino a 5 anni dopo l’ascesa al potere dei populisti, ma ancora, in misura significativa, dopo 15 anni.
A pesare, dice lo studio, è la miscela di protezionismo, esplosione del debito e corsa dell’inflazione che è il mix tipico delle ricette economiche populiste. A sentire, oggi, in ossequio al governo Draghi, Salvini, e i riformati Claudio Borghi e Alberto Bagnai – i due economisti di punta della Lega – non parrebbe proprio, ma tornando alla formazione del governo gialloverde nel 2018, quei tre elementi (protezionismo, debito e inflazione) erano il risultato esplicitamente previsto nei laboratori per l’uscita dall’euro, ad esempio la cerchia – si scoprì allora, fra mille polemiche – intorno a Paolo Savona, in odore, per qualche settimana, di poltrona al Tesoro.
La ricerca mette, però, in luce una sorta di “fragilità populista”. Ovvero, scorrendo la lista dei governi populisti degli ultimi 120 anni, si vede che, se un paese ha portato al potere una volta un leader populista è facile che ci ricaschi. La questione rischia di essere di scottante attualità. Il populismo al potere, infatti, ha conosciuto, nell’ultimo secolo due picchi e, ambedue le volte, l’economia, più di qualsiasi altro fattore, ha giocato un ruolo determinante. I picchi di governi populisti sono stati toccati, infatti, in concomitanza con le ultime due Grandi Depressioni. Quella degli anni ’30 del secolo scorso e quella successiva al crollo finanziario globale del 2008. La pandemia in corso ha creato una recessione anche peggiore di quella del 2008, concentrandola nell’arco di pochissimi mesi, anche se, finora, le ricadute sociali non sono neanche paragonabili alle miserie degli anni ’30. E, allora, chi premierà, elettoralmente, la pandemia? Dobbiamo aspettarci una ondata di rancore populista contro governi incapaci di gestire contagi e vaccini? Non è detto. Un’altra ricerca pubblicata da Vox spiega che, in America, dopo la spagnola del 1918-20, non ci fu una rivolta elettorale significativa contro i politici che avevano gestito l’epidemia.
Ma, un secolo fa, pochi pensavano che i governi potessero far qualcosa contro le epidemie. E, soprattutto, guardando quel che avvenne in Europa, all’inizio degli anni ’20, fra Italia, Germania, anche Inghilterra, pare difficile generalizzare l’esperienza americana.