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San Suu Kyi, un'icona macchiata

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AGI – A distanza di poco più di 10 anni per il Myanmar e per la sua leader volto della democrazia Aung San Suu Kyi la storia si ripete. Sul Paese asiatico torna a soffiare il vento dell’oppressione militare mentre la sua iconica dirigente si ritrova in prigione. Una sorte già patita da Suu Kyi, nata il 19 giugno 1945 a Rangoon, nell’allora Birmania, figlia del generale eroe dell’indipendenza nazionale, Aung San, brillanti studi a Oxford e New York, carriera all’Onu, fondatrice della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) nel 1988, anno del suo ritorno in patria e del colpo di Stato del generale Saw Mang. Fortemente influenzata dagli insegnamenti del Mahatma Gandhi e dai concetti buddisti, Suu Kyi si contraddistingue per il suo impegno in difesa dei diritti umani sulla scena nazionale, imponendosi come capo del movimento di opposizione. Per le sua attività nel 1989 la dittatura militare la condanna agli arresti domiciliari, offrendogli però la possibilità di lasciare il Myanmar, offerta che rifiutò.

Dal Nobel alla liberazione nel 2010 

Gli arresti domiciliari furono revocati dietro pressioni internazionali sul regime ma poi più volte riconfermati fino alla sua liberazione definitiva, il 13 novembre 2010.
Per le sue battaglie San Suu Kyi è stata insignita di prestigiosi premi, a partire dal Premio Nobel per la pace nel 1991 e la medaglia d’oro del Congresso Usa nel 2008.  Alle elezioni parlamentari suppletive del 1 aprile 2012 vince un seggio al Parlamento birmano.

La scalata al governo

Alle prime elezioni libere dal colpo di Stato del 1962 – escludendo quelle del 1990, ignorate dalla giunta militare – l’11 novembre 2015 la sua Lega Nazionale per la Democrazia ottiene 291 seggi. Dal 30 marzo 2016, con l’insediamento del governo formato da Htin Kyaw, Suu Kyi diventa ministro degli Esteri, della Pubblica Istruzione, dell’Energia elettrica e dell’Energia e Ministro dell’Ufficio del Presidente. Dal 6 aprile dello stesso anno lascia i dicasteri della Pubblica Istruzione, dell’Energia elettrica e dell’Energia, per diventare Consigliere di Stato, una sorta di Primo Ministro o meglio di presidente de facto del Paese.

Le critiche internazionali

Nonostante la sua netta vittoria alle ultime elezioni legislative dello scorso novembre – dall’esito invece “fraudolente” secondo i militari – Suu Kyi è sempre più criticata, sia in patria che soprattutto all’estero.
Da paladina dei diritti umani nonché simbolo della resistenza pacifica all’oppressore e volto della democrazia nell’ex Birmania, è diventata complice e negazionista sulle violenze e gli abusi commessi dai militari nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya.

Il premio Sakharov ritirato

La sua immagine è molto offuscata in Occidente: a riprova la decisione dell’Europarlamento dello scorso anno di prendere le distanze dalla controversa leader birmana ritirandogli il premio Sakharov per la libertà di pensiero che Strasburgo gli aveva assegnato nel 1990. In Myanmar è in parte scemato il sentimento di entusiasmo diffuso che Suu Kyi suscitava negli scorsi anni, ma da un lato molti nella maggioranza Bamar la venerano ancora come madre della nazione e la sua popolarità è ulteriormente balzata quando nel dicembre 2019 si è recata alla Corte penale internazionale dell’Aia per difendere il Paese dalle accuse di genocidio ai danni dei Rohingya. In un’altra parte della popolazione, invece, è cresciuta delusione e apatia per la mancata adozione di riforme democratiche, per la crisi economica, e soprattutto per l’esclusione sociale e la violazione dei diritti delle minoranze, che rappresentano circa il 30% della popolazione.

Vedi: San Suu Kyi, un'icona macchiata
Fonte: estero agi


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