In occasione dell’anno dedicato a Dante Alighieri, si propone un confronto tra il suo poema e il simbolo del labirinto, nel medioevo molto più familiare che non oggi
di Ignazio Burgio
In Italia si possono trovare molti labirinti di epoca medievale, risalenti in genere al XII secolo, specialmente lungo la Via Francigena – la famosa via di terra tra il Nord della Francia e Roma – ed esclusivamente all’interno di edifici religiosi, come chiese, cattedrali e monasteri. Di forma rigorosamente circolare presentano un unico percorso che da un ingresso/uscita conduce al centro, unico punto cieco, da dove si può solo tornare indietro rifacendo la medesima strada. Come sanno bene tutti gli appassionati di questo simbolo, è infatti solo a partire dal Rinascimento che esso è diventato “un luogo dove ci si può smarrire” con falsi percorsi e vicoli ciechi.
I labirinti medievali presenti da noi in Italia, possono presentarsi incastonati sul pavimento come nella Basilica di San Michele Maggiore a Pavia (di cui oggi ne rimane solo un frammento) o esposti in posizione verticale come quelli ad esempio della cattedrale di San Martino a Lucca, della chiesa di San Pietro a Pontremoli (Massa Carrara) o del monastero di San Francesco ad Alatri (Frosinone).
Secondo molte fonti, specialmente in Francia e in Italia i labirinti medievali intendevano esprimere un tipico significato ascetico-cristiano: il mondo come luogo malvagio di tentazioni e perdizione, dove ogni fedele doveva percorrere come un pellegrino il proprio cammino esistenziale cercando di non lasciarsi irretire dalle seduzioni del peccato. È significativo quanto era scritto in alcuni versi in esametri che accompagnavano il labirinto (oggi non più esistente) della Basilica di San Savino a Piacenza: “Questo labirinto rappresenta il mondo, largo per chi vi entra, ma strettissimo per chi vuole uscirne. Così chi è preso dal mondo, gravato dalla mole dei vizi, soltanto a fatica può tornare alle dottrine della vita”.
Dante certamente non ignorava né l’esistenza né il significato dei labirinti che esistevano già ai suoi tempi, sia in Toscana che altrove. Così non può essere un caso che l’Inferno e il Purgatorio riflettano sia la geometria che il valore simbolico della leggendaria prigione del Minotauro.
L’Inferno immaginato dal poeta fiorentino è infatti una profonda voragine costituita da nove cerchi concentrici comunicanti tra loro, proprio come ad esempio il labirinto di Lucca, nel quale Dante guidato da Virgilio esegue il suo viaggio spirituale, come un vero pellegrinaggio dell’anima. Inoltrandosi sempre più nell’abisso infernale ha modo di osservare gli autori di colpe sempre più gravi finché giunto al centro dell’Inferno/labirinto entra direttamente in contatto con il Male per antonomasia, ovvero il mostruoso corpo di Lucifero. E qui si presenta un significativo parallelo con l’iconografia artistica degli antichi labirinti di epoca romana – realizzati a mosaico sui pavimenti di ville e terme – che al centro hanno spesso una Minotauromachia, ovvero la rappresentazione della lotta tra Teseo e il Minotauro.
Con un’evidente ripresa di questo medesimo stile, in un labirinto del X secolo disegnato all’interno di un codice in pergamena nel monastero parigino di Saint-Germain-des-Prés, compare al centro di tutti i cerchi concentrici la figura di un Minotauro che tuttavia assomiglia molto di più a un diavolo con tanto di corna. È orgogliosamente seduto in trono e con i piedi appoggiati ad uno sgabello, come vero principe e signore del mondo, così come vuole la tradizione evangelica. Dopo questo primo esempio, nelle successive raffigurazioni di labirinti su pergamena viene sempre raffigurato al centro il Minotauro, da solo o durante la lotta con Teseo.
Dopo essere giunto a stretto contatto con Lucifero, il Male assoluto, nel luogo più distante dal Cielo e da Dio, ovvero al centro del mondo, Dante guidato da Virgilio inizia il suo cammino di lento allontanamento, sia fisico che spirituale, dalla dimensione infernale. Per risalire verso la spiaggia ai piedi del Purgatorio (nuovamente alla vista del Cielo e delle stelle) imbocca uno stretto cunicolo, o “natural burella” che fa venire ancora una volta in mente i versi che accompagnavano il labirinto della Chiesa di San Savino a Piacenza: “Questo labirinto rappresenta il mondo, largo per chi vi entra, ma strettissimo per chi vuole uscirne…”.
Anche la montagna del Purgatorio, con le sue nove suddivisioni comunicanti tra loro (sette cornici più Antipurgatorio e Paradiso Terrestre), rappresenta un labirinto complementare a quello infernale. O meglio, il cammino inverso per uscire, fisicamente e spiritualmente, da quella prigione di peccati, mali e vizi che era considerato il mondo/labirinto, per raggiungere così in cima al Purgatorio il luminoso Paradiso Terrestre (antitesi della “selva oscura” dei primi versi dell’Inferno, e metafora della vita cristiana in grazia di Dio, nonché preludio all’ascesa verso il Cielo).
Proprio come il simbolo del labirinto all’epoca di Dante, la Divina Commedia esprime insomma tutta la visione negativa che il cristiano medievale aveva del mondo, dimensione spregevole di peccati e tentazioni. Era una forma di pensiero che tuttavia nel Quattrocento sarebbe entrata in crisi con l’Umanesimo e la positiva rivalutazione dell’antichità classica e pagana. Alla medesima maniera sarebbe entrata in crisi (anche se tutt’altro che sulla via del tramonto) la considerazione negativa del labirinto: appartengono infatti al 1338, qualche tempo dopo cioè la morte di Dante, avvenuta a Ravenna nel 1321, le prime sporadiche notizie sull’esistenza in Francia di giardini con la forma di labirinti, chiamati “Case di Dedalo” (Maison Dédalus), per i divertimenti – anche amorosi – dei ricchi nobili francesi. Ma questa, chiaramente, è tutta un’altra storia.