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LA DEMOCRAZIA AMERICANA È IN CRISI?

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di Antonino Gulisano

Il XIX e il XX secolo fu il sogno americano, figlio del mito della frontiera per molte generazioni di diversi paesi. Prometteva il benessere materiale in cambio di un duro lavoro e della disponibilità al rischio.

Dopo la crisi del 2007 negli USA si lavora sempre meno, ma si è pagati sempre di meno, il tempo non basta mai e le speranze in un futuro migliore sembrano dissolversi.

Il XXI secolo si apriva con un nuovo sogno, integralmente diverso, quello europeo. Rispetto agli americani, gran parte dei cittadini europei hanno goduto di maggiori protezioni sociali, una più lunga aspettativa di vita, una migliore istruzione, più tempo libero. In alcuni paesi dell’U.E. si vive meglio.

“Trump ha disintegrato il contratto sociale della democrazia americana e anche le regole della decenza”

Gli spettri che si aggirano nella politica americana sono tutti diversi da quelli che Anselma Dell’Olio racconta nel suo ultimo film, “Fellini degli spiriti”, andato in onda su Rai1 il 2 gennaio e ora felicemente visibile su Rai Play a ogni ora del giorno e della notte: un film nel quale c’è il ritratto di un Fellini ultraterreno, che dà del tu al mistero, al sacro, alla psicologia del profondo di matrice junghiana, alla metafisica, alle pratiche divinatorie e magiche, sconvolgendo i progressisti del suo tempo, e ovviamente anche quelli del nostro, perché i perbenisti non cambiano mai, da sempre rifiutano il piacere di farsi scandalizzare da quel che non conoscono.

La giornalista Robin Wright, scrivendo su The New Yorker (l’8 settembre 2020, online), chiedeva: «L’America è un mito?». Un mito che comunque non mantiene più unito il Paese. I sociologi ci hanno detto che gli Stati Uniti, diversamente da altri Paesi accomunati dal sangue e dal suolo, sono stati tenuti insieme da una serie di idee, ossia dalle verità evidenti contenute nella Dichiarazione di indipendenza: «tutti gli uomini sono creati uguali» e «sono stati dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti [alla] vita, libertà e ricerca della felicità».

Il mito americano oggi è esposto a sfide esistenziali, che non provengono più solo dalle periferie. Molte persone negli Stati Uniti sono consumate dalla rabbia.

Nel Secondo dopoguerra molti statunitensi ritenevano che il proprio Paese fosse un’eccezione rispetto alle fragilità politiche che affliggevano gran parte del resto del mondo.

La guerra del Vietnam e il movimento per i diritti civili hanno portato un decennio di contestazioni, che hanno tracciato linee divisive generali per le due generazioni successive. «Oggi l’America – osserva la Wright – è ancora in conflitto sui propri valori, sia che si tratti del patto sociale, sia della maniera di educare i figli, sia del diritto o del divieto di portare armi, sia della protezione dei suoi vasti territori, dei laghi e dell’aria, sia delle relazioni tra i singoli Stati e il governo federale».

L’attuale crisi politica sembra aver prosciugato, nel sistema pubblico americano, le fonti storiche del rispetto, del compromesso e della coesione civica. Per decenni, il consenso che teneva unita l’America si è andato erodendo; nelle fondamenta della società statunitense hanno cominciato a moltiplicarsi le crepe.

La perdita della coscienza civica è una componente fondamentale dell’attuale crisi della democrazia americana. Fin dai suoi inizi, nel XIX secolo, il sistema scolastico pubblico statunitense si è preoccupato di educare cittadini alfabetizzati.

Negli anni Sessanta, caratterizzati dalle tensioni sulla Guerra del Vietnam, dal movimento per i diritti civili e dai conflitti dovuti al cambio generazionale, nelle scuole è subentrata l’insofferenza riguardo all’idea di dover trasmettere – nonché imporre – valori. L’insegnamento della Storia e dell’Educazione civica ha perso importanza.

Negli ultimi anni, i social media (Facebook, Twitter, TikTok e simili) sono stati accusati di esercitare un’influenza divisiva sulla cultura politica americana. Gran parte della colpa, tuttavia, va attribuita alla stampa cartacea e ai media radiotelevisivi, che per decenni hanno ridotto la loro attenzione verso l’estero. La copertura delle notizie non soltanto si è notevolmente focalizzata sulle questioni nazionali, ma si è concentrata progressivamente sulla politica, riducendola a un talk show.

La crisi culturale americana è diventata una crisi politica, perché in una società in cui «chi vince prende tutto» sono state rimosse le barriere di protezione. Con la sentenza pronunciata in «Cittadini uniti contro la Commissione delle elezioni federali» (2010), la Corte Suprema ha annullato i limiti ai contributi alle campagne politiche, equiparando il denaro alla libertà di parola.

Infine, la crisi della democrazia statunitense deriva da disfunzioni nel suo sistema costituzionale. Si presume che il compromesso sia il modo in cui le democrazie funzionano. La Costituzione degli Stati Uniti è frutto di una serie di compromessi, ma col tempo essi possono diventare punti deboli del processo politico.

Due accordi problematici di questo genere contribuiscono all’attuale crisi della democrazia americana.

Il primo riguarda il sistema elettorale del Senato degli Stati Uniti, in base al quale ogni Stato ha diritto a due senatori. Si presume che esso serva a mantenere un equilibrio tra Stati piccoli e grandi e tra popolazioni rurali e urbane.

Il secondo è il Collegio elettorale, l’organo che compie l’effettiva scelta dei presidenti, quello che, in elezioni incerte, può dare un peso determinante ai voti della minoranza popolare.

Entrambi i partiti dovranno affrontare la questione della loro identità.

Il partito repubblicano rimarrà il partito di Trump, oppure si ritaglierà una identità nuova. Anche senza Trump, potrà liberarsi da quell’etica del «vincere a tutti i costi» che l’ha privato di ogni reale interesse a governare per una rinnovata mentalità civica, quella che una volta veniva associata alla Middle America.

La sinistra democratica, dal canto suo, deve fare i conti con la cattiva notizia che nelle periferie e nelle zone rurali la campagna di Trump è riuscita a dipingere le sue politiche preferite (il Green New Deal, l’opzione pubblica nel sistema sanitario, l’istruzione universitaria gratuiita) come espressioni di un «socialismo» estremista.

Al di là delle identità di parte, il pubblico americano resta diviso da un grande abisso di incomprensioni. Alcune di queste sono di natura tribale, intrise di identità politiche che assumono una consistenza quasi religiosa, sulla cui scorta molti liquidano quelli dell’altra parte come malvagi e pericolosi.

Un osservatore ha affermato che non è più opportuno identificare gli evangelici conservatori come «evangelici», né la destra cristiana come «cristiana», perché l’identità religiosa di molti è stata fagocitata dalle loro alleanze politiche.

Gli statunitensi non hanno sempre pensato al loro sistema di governo come a una democrazia. Si narra che nel 1787 Benjamin Franklin, al termine di un’assemblea durante i lavori della Convenzione, sia stato interpellato dalla moglie del sindaco di Filadelfia, Elizabeth Willing Powel, su quale forma costituzionale avrebbero assunto gli Stati Uniti.

Questa la sua risposta: «Avremo una Repubblica, se sarete in grado di mantenerla». Franklin e gli altri Padri Fondatori, guardando al passato, si preoccupavano per la democrazia popolare e progettarono la Costituzione dotandola di una serie di controlli contro l’affermazione del potere del popolo. Una visione più favorevole alla democrazia si fece strada con le riforme elettorali dell’Era progressista (tra il 1890 e il 1920) – elezioni primarie, referendum, recall (controllo degli eletti), elezione diretta dei senatori e suffragio femminile –, che annullarono i vincoli del modello repubblicano per costruirne uno più democratico.

Che si tratti di una Repubblica o di una democrazia, l’interrogativo è: i cittadini americani sapranno mantenerla?


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